La lunga storia della violenza politica in Giappone
Dall'attentato a Shinzo Abe allo scampato omicidio di Charlie Chaplin, ecco una lista di fatti di sangue che hanno attraversato il paese del Sol Levante nell'ultimo secolo.
Del Giappone pensiamo di sapere tutto. Lo conosciamo meglio di qualsiasi altro paese dell’Asia orientale e pressoché chiunque ce l’ha nell’elenco dei viaggi da fare almeno una volta nella vita.
Siamo cresciuti trascorrendo i pomeriggi tra anime e manga, giocando alle console della Nintendo o ascoltando la musica da un walkman. Come ha scritto il giornalista Matt Alt, “il Giappone eccelle nella realizzazione di prodotti che rispondono a domande che il mondo non ha ancora pensato neppure di porre e, quando li vediamo, istintivamente li bramiamo”.
Eppure, politica, attualità e trasformazioni sociali del paese del Sol Levante trovano poco spazio nei media mainstream. Da qui la necessità di aprire uno spazio dedicato alla terza potenza economica mondiale, nonché attore di primo piano in un quadrante geografico dagli equilibri estremamente delicati.
Benvenuti alla puntata #1 di Japanica.
Il passato controverso di Shinzo Abe
È trascorso un anno dall’uccisione dell’ex primo ministro Shinzo Abe.
L’8 luglio 2022, il quarantaduenne Tetsuya Yamagami colpisce con un’arma da fuoco fabbricata in casa il leader politico ferendolo mortalmente. Abe si trovava nella città di Nara per tenere un comizio a favore di un candidato del Partito Liberal Democratico, quando viene raggiunto dagli spari.
L’assassino viene subito fermato e identificato, e sarà lui stesso a confessare poi agli inquirenti che a muoverlo nel gesto estremo era stato il legame tra Shinzo Abe e la Chiesa di Unificazione, un movimento religioso fondato dal reverendo Sun Myung Moon in Corea negli anni ’50 e molto diffuso anche in Giappone.
È la morte tragica del politico giapponese più importante degli ultimi cinquant’anni, nonché di quello più controverso.
Abe è stato a lungo membro della Nippon Kaigi, il più grande gruppo di estrema destra e ultraconservatore del Giappone che ha tra i principali obiettivi quello di ripristinare la Costituzione di epoca imperiale. Tra i luoghi sacri della Nippon Kaigi vi è il Santuario Yasukuni, un memoriale ai caduti della Seconda Guerra Mondiale, tra i quali anche 14 criminali di guerra di “Classe A”.
Tra le fila dei criminali di guerra di “Classe A” – così venivano etichettati dagli Stati Uniti – si conta Nobusuke Kishi, nonno materno di Abe. Inviato come viceministro nello stato fantoccio del Manchukuo - un territorio corrispondente all’attuale Manciuria e parte della Mongolia interna - Kishi fu responsabile del brutale sfruttamento di decine di migliaia di lavoratori cinesi.
Nel 2013 e poi ancora nel 2020 – a pochi giorni dall’aver rassegnato le dimissioni - Abe visitò il Santuario Yasukuni sollevando aspre critiche da parte di Corea del Sud e Cina.
Abe non ha mai chiesto scusa per le atrocità commesse dal Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale.
Una storia intrisa di sangue
La notizia della morte violenta di Abe ha sconvolto l’intera comunità internazionale. Capi di stato di tutto il mondo hanno inviato i propri messaggi di cordoglio, dall’ex presidente americano Donald Trump a quello indiano Narendra Modi.
Uno degli aspetti che i media hanno sottolineato maggiormente nelle cronache dei giorni seguenti è che il Giappone presenta uno dei tassi più bassi di omicidi da arma da fuoco: 0,02 persone ogni 100mila abitanti, contro le 4 negli Stati Uniti e le 0,4 in Italia.
Come è possibile che un paese così sicuro attenti alla vita del proprio presidente?
A metà aprile un altro attentato ha scosso la vita politica giapponese: il primo ministro attualmente in carica, Fumio Kishida, è uscito illeso dall’esplosione di un ordigno lanciato da un uomo nella folla durante un comizio al porto di Saikazaki, nella prefettura di Wakayama.
Se è vero da un lato che le percentuali relative alle morti violente e più in generale alla criminalità sono tra le più basse del mondo, è altrettanto vero che la violenza politica non è così rara. Al contrario, è parte integrante della società giapponese.
La storia del Novecento è costellata di numerosi assassini, agguati e sequestri che stride con l’immagine caricaturale che si ha spesso in Occidente fatta di inchini e santuari immersi nella natura.
Lo storico Francis Pyke ricorda alcuni dei casi più celebri in un articolo su The Spectator.
Nel 1909, il quattro volte primo ministro Itō Hirobumi venne ucciso nella stazione di Harbin, città settentrionale della Cina, da un membro del Movimento indipendentista coreano. Itō era stato tra i fautori del negoziato che portò la Corea sotto il dominio giapponese, prima come protettorato poi come colonia.
Nel 1921, il primo ministro Hara Takashi venne assassinato alla stazione di Tokyo da un ferroviere di estrema destra “risentito” per l’eccessivo potere delle zaibatsu, i grandi conglomerati industriali e finanziari originariamente a controllo familiare che sin dal periodo Edo (1603-1868) hanno avuto una posizione dominante nell’economia giapponese (tra le più antiche, ad esempio, c’è la Mitsubishi).
Con il diffondersi del nazionalsocialismo “arricchito” da una narrazione tossica e rivisitata del bushidō – letteralmente “la via del guerriero”, il codice di condotta morale e marziale dei samurai in epoca feudale – gli anni Trenta furono un’esplosione di fatti di sangue.
Sempre alla stazione di Tokyo, nel 1930, un membro di un partito di estrema destra sparò al primo ministro Hamaguchi Osachi, accusato di aver sottoscritto il Trattato navale di Londra che limitava e riduceva gli armamenti navali. Hamaguchi morì nove mesi dopo, a causa delle ferite riportate nell’attentato.
Due anni dopo, undici ufficiali della Marina militare insieme ad alcuni membri del gruppo ultranazionalista Ketsumeidan (“Lega di sangue”) fecero irruzione nella residenza del primo ministro Inukai Tsuyoshi. Quello che viene ricordato come “l’incidente del 15 maggio” (Go-ichigo jiken) fu un vero e proprio tentativo di colpo di stato in cui Inukai perse la vita. Tra le vittime designate doveva esserci anche il noto attore e regista Charlie Chaplin, ospite in quei giorni a Tokyo. La sua morte sarebbe servita a velocizzare lo scoppio della guerra con gli Stati Uniti. Chaplin si salvò perché quella sera era uscito per seguire un incontro di sumo con il figlio del primo ministro.
Un altro colpo di stato venne tentato nel febbraio del 1936 da cento ufficiali dell’esercito. Vennero uccisi due ex primi ministri. Mentre alla fine della Seconda guerra mondiale, alcuni militari tentarono il sequestro dell’imperatore Hirohito per impedire la dichiarazione della resa. Il tentativo fallì, ma chiunque tentò di frapporsi venne assassinato.
Celebre poi è la foto che riprese l’attimo prima che il leader del Partito Socialista, Inejiro Asanuma, venisse accoltellato dal diciasettenne Futaya Yamaguchi, esponente del movimento di estrema destra Aikokutō. Futaya utilizzò il wakizashi, un coltello dalla lama corta indossato dai samurai. Era il 1960.
Di episodi di questo tipo se ne potrebbero citare molti altri ancora: nel 1986, il gruppo rivoluzionario di sinistra Chukaku-ha sparò alcuni colpi puntando alla stanza in cui i presidenti dei paesi del G7 tra cui Ronald Reagan, Margaret Tatcher, Francois Mitterand, Helmut Kohl e Bettino Craxi stavano per riunirsi. Non ci furono né vittime né feriti.
Per ricordarne alcuni più recenti, invece, nel 2002 un esponente del partito democratico venne ferito a morte da un membro di un potente gruppo criminale della yakuza. Simile la sorte che toccò nel 2007 al sindaco della città di Nagasaki.
Riprendendo le parole dello storico Pyke:
“Non dovremmo pensare al Giappone come un’isola quieta e pacifica dove il tasso di criminalità è una frazione di quello occidentale. Alla base di questa società così rigidamente controllata e uniforme, si muove una corrente sotterranea di violenza estrema. E la vita, la storia familiare, le idee politiche e persino la morte di Shinzo Abe esemplificano a pieno questo schema. I giapponesi non sono sempre la caricatura, rappresentata spesso in televisione, di persone beneducate che si inchinano. È [piuttosto] un popolo che non può sfuggire al fatto che la sua storia e la sua cultura è intrisa di sangue sin dalla Restaurazione Meiji (1868)”.
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