Ha senso parlare di “giapponesizzazione” dell’economia cinese?
Disoccupazione giovanile, invecchiamento della popolazione e crisi del settore immobiliare. L'economia cinese rallenta e c'è chi osserva alcune analogie con il Giappone di fine anni '80.
C’è un’espressione che viene solitamente utilizzata quando ci si riferisce agli anni ’90 in Giappone e questa è “decennio perduto”. Se gli anni ’80 erano stati gli anni della consacrazione a superpotenza mondiale (espansione economica, disoccupazione sotto il 2%, aumento del reddito netto e dei consumi), gli anni ’90 sono coincisi con lo scoppio della bolla economica e l’inizio della deflazione.
Oggi la Cina sta subendo una brusca frenata economica e per la prima volta, dopo anni di crescita a doppia cifra, deve affrontare gli alti tassi di disoccupazione giovanile, la crisi demografica e una popolazione ormai disillusa che spende sempre meno. Per questi motivi, diversi analisti hanno colto alcune analogie con il Giappone della fine degli anni Ottanta, seconda potenza mondiale che minacciava di scalzare il primato degli Stati Uniti con la sua supremazia tecnologica e che nel 1990 crollò rovinosamente.
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Il decennio perduto e lo scoppio della bolla economica
I giapponesi, con il loro basso livello di capitale nazionale, sembrano una famiglia che abita in una casa decrepita, che ha lavorato sodo e fatto economia per mettere da parte del denaro, per poi prestarlo in giro anziché usarlo per rimettere in sesto la casa.
Così l’economista Noguchi Yukio riassumeva la situazione del Giappone degli anni ‘90. Ci si aspettava infatti che i giapponesi avrebbero tratto beneficio dall’elevato valore dello yen grazie ai beni importati a basso costo e ad attivi di bilancio prontamente immessi nel capitale nazionale, invece – spiega Elise K. Tipton ne “Il Giappone moderno” – da una parte le aziende non lasciarono che i consumatori beneficiassero dei profitti preferendo investire soldi presi in prestito a bassi tassi di interesse in affari più redditizi (zaitech); dall’altro il governo ridusse l’ emissione di titoli di stato e non utilizzò il saldo attivo di bilancio per migliorare welfare e infrastrutture.
Era la fine del “sistema occupazionale giapponese” per come era andato sviluppandosi sin dagli anni ‘50: un lavoro stabile e sicuro per tutta la vita alle dipendenze di una sola azienda a cui rimanere fedeli. Al suo posto entrò a far parte del vocabolario quotidiano la parola “ristrutturazione”, che in realtà voleva dire tagli del personale, riduzioni di stipendio e di benefit, aumento delle ore di lavoro.
A scoppiare fu anche la bolla speculativa immobiliare: tra il 1986 e il 1987, i terreni nell’area metropolitana di Tokyo avevano triplicato il proprio prezzo e persino i giardini del palazzo imperiale erano stati valutati ad una cifra superiore a quella di tutti gli immobili della California messi insieme. Nel giro di qualche anno quegli stessi immobili sarebbero stati deprezzati più del 60%.
Al crollo economico coincise quello politico. Nel 1989 si concluse il cosiddetto “sistema 1955”. Per la prima volta dopo più di trent’anni il Partito liberaldemocratico perse il controllo della Camera alta della Dieta generando confusione e instabilità nella leadership del partito. Il continuo emergere di episodi di corruzione, che vedeva numerosi politici e alti funzionari accettare cospicue tangenti, aveva contribuito ad alimentare un clima di generale sfiducia tra gli elettori.
Rallentamento dell’economia cinese: analogie e differenze con il Giappone
Siamo dunque agli albori di un nuovo decennio perduto? L’economia cinese si sta davvero “giapponesizzando” come titolano in queste settimane diversi quotidiani internazionali?
Gli analisti hanno riscontrato alcune analogie, ma se il Giappone offre certamente un modello utile [da studiare] per la classe dirigente cinese - scrive l’economista George Magnus su The New Statesman – questo [parallelismo] non per forza è esatto.
È strano ancora oggi pensare a come il Giappone, patria di aziende leader come Sony e Toyota – il corrispettivo di Huawei e BYD per la Cina – e dotato di un’abilità tecnologica invidiata nel mondo, sia finito in tali difficoltà. Ma è anche vero che alcune delle contraddizioni che lo hanno portato a quella che viene definita “recessione dei saldi di bilancio” (balance sheet recession) - e quindi all’indebitamento di famiglie, imprese e banche - le ritroviamo nella Cina di oggi.
Come il Giappone di allora, prosegue Magnus, la Cina ha un modello di sviluppo che si basa principalmente su investimenti elevati, ingenti risparmi e un sistema commerciale “sfacciato”.
Ci sono, tuttavia, notevoli differenze che vengono analizzate in un report della JP Morgan. In primo luogo, il tasso di urbanizzazione che in Cina nel 2022 era al 65% a dispetto del 77% in Giappone del 1988. Questo vuol dire che potenzialmente ci si aspetta ancora un aumento della produzione derivante dalla migrazione di manodopera.
Secondo, la Cina ha un mercato molto più ampio e un bacino di laureati STEM più numeroso e sebbene possa trovarsi in un contesto internazionale più complicato, è ormai alla guida di settori fondamentali, tra cui quello delle energie rinnovabili e la produzione di veicoli elettrici. Rappresenta inoltre il 20% del commercio mondiale, mentre il Giappone nel momento del suo picco aveva raggiunto il 7%.
Scrivono poi gli analisti firmatari del report che la sopravvalutazione dei prezzi immobiliari in Cina non è grave come quella del Giappone negli anni ’90. E in parte questo è dovuto dai prezzi calmierati delle case e il solido aumento dei redditi.
Infine, il governo ha molto più controllo sui flussi di capitale e dispone di più leve politiche per gestire la decrescita.
Ad esempio, un sistema che porterebbe indubbiamente ad un aumento dei consumi, se rivisto, è quello che regola la registrazione delle famiglie. L’hukou (户口) classifica ogni cittadino cinese fin dalla nascita sulla base di una serie di parametri (es. provenienza rurale o urbana, professione, etnia e religione) ancorandone l’accesso ai servizi essenziali al luogo d’origine. Tradotto vuol dire che un lavoratore a Pechino originario della regione del Sichuan non può iscrivere i propri figli a scuola a meno che non torni nel paese di provenienza o non paghi per una scuola privata a Pechino di mediocre livello. In sostanza avere servizi essenziali a pagamento vuol dire fare delle rinunce per altri tipi di spese.
Ha scritto recentemente il giornalista Simone Pieranni su Il Manifesto che è almeno dal 2001 che escono libri e analisi sul futuro crollo della Cina. Doveva avvenire nel 2011 e non è successo, così tutte le volte a seguire. Non sorprenderebbe, quindi, se le previsioni fatte in queste settimane avessero alla fine risvolti più sobri. D’altronde anche con il Giappone non sono state propriamente lungimiranti: per tutti gli anni Ottanta ha dominato la paura che le aziende nipponiche prendessero il sopravvento su quelle statunitensi, alla fine ci si è resi conto che non sarebbe andata così.
Particolarmente curioso da leggere oggi è un articolo del 2005 del New York Times dal titolo “Ok, il Giappone non sta conquistando il mondo, ma la Cina…”. All’interno si trova anche una sorta di ammissione di colpa dello storico ed economista Chalmers Johnson che dice di avere in effetti sopravvalutato la natura della sfida giapponese. L’autore del pezzo scriveva poi che se il successo delle società giapponesi coincideva con il fallimento di quelle americane, una crescita dell’economia cinese a superpotenza era cosa auspicabile. Il dramma sarebbe stato esattamente l’opposto: il suo fallimento.
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