Come ha fatto il Giappone a conquistare il mondo
Add Editore ha da poco pubblicato in Italia POP ポップ, un libro che analizza il rapporto tra Giappone e Occidente attraverso la lente dei prodotti di consumo. Ne ho parlato con l'autore, Matt Alt.
Matt Alt è uno scrittore, traduttore e reporter. Vive a Tōkyō ormai da tanti anni, è stato co-conduttore di un programma sulla televisione pubblica giapponese NHK e scrive regolarmente per alcune importanti riviste internazionali come The New Yorker e Wired, cura inoltre la newsletter Pure Invention. È tra i fondatori di AltJapan Co. Ltd, un’azienda specializzata nella traduzione in inglese di videogame e manga. Recentemente la casa editrice Add Editore ha tradotto e pubblicato in Italia “POP ポップ, Come la cultura giapponese ha conquistato il mondo”, un libro su alcuni dei prodotti di consumo più noti che hanno segnato la storia moderna del Giappone e cambiato l’immaginario collettivo anche in Occidente. Una delle prime cose che mi ha spiegato Alt durante l’intervista è che non era interessato a fare un libro sul karaoke, Hello Kitty o i prodotti Sony da un punto di vista occidentale. Ne sono stati scritti già tanti così, con interviste a soli occidentali. Alt voleva andare alla fonte e capire il perché e come siano nati questi prodotti. “Non perché il Giappone è strano” - mi ha detto - “ma perché rispondevano a domande che in Occidente non avevamo ancora pensato di porre”.
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Un aspetto che emerge molto chiaramente dal tuo libro è la parabola del “made in Japan”: da sinonimo di bassa qualità nel dopoguerra fino a diventare neanche venti anni dopo marchio di prodotti che chiunque nel mondo desiderava. Negli Stati Uniti è arrivato ad essere persino una minaccia alla società americana stessa - pensiamo all’immaginario di Bladerunner, Neuromante di Gibson o il salaryman giapponese che licenzia McFly in Ritorno al Futuro II - il “Giappone spa” era un pericolo che rischiava di soppiantare il dominio occidentale.
Nel 1963, quando il cofondatore della Sony Morita Akio si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti, rimase scioccato nel constatare che l'unica cosa che veniva in mente agli americani quando pensavano al Giappone erano gli ombrellini di carta che si infilano nelle bibite o i vestiti molto economici.
È stato solo tra la fine degli anni '70 e la fine degli anni '80 che la situazione è cambiata, perché aziende giapponesi come la Sony hanno iniziato a produrre cose che l'Occidente non poteva più ignorare: sia che si trattasse di televisori che di macchine, i prodotti erano molto economici e tecnicamente migliori di quelli che producevamo in Occidente.
Non credo ci siano precedenti simili. Non riesco a pensare a nessun altro esempio in cui, nell'arco di mezzo secolo, due Paesi che erano in guerra improvvisamente si innamorano l'uno dell'altro. La forza trainante è il creare prodotti che piacciono a tutti. Ed è per questo che ho scelto i prodotti di consumo come lente per osservare il rapporto tra Giappone e Occidente.
Nella metà dell’Ottocento, quando la prima flotta statunitense arrivò in Giappone si aspettava di trovare una nazione primitiva con un basso tenore di vita e facile allo sfruttamento. Scoprirono invece una vivace economia e una popolazione che non solo appagava i bisogni quotidiani, ma era amante del superfluo. Nel primo capitolo quando racconti la storia di Kosuge Matsuzo e della sua jeep di latta - diventata quasi un oggetto di culto in un Giappone devastato dalla guerra - spieghi come il Paese sia da sempre un grande produttore di giochi di ogni tipo. Quanto è importante l’aspetto ludico nella società giapponese?
Il periodo dell’occupazione militare americana non è stato di certo un periodo piacevole, ma Kosuge ha preso ispirazione da questa situazione per creare un giocattolo: una jeep militare, di quelle che all’epoca si vedevano ovunque per le strade. Il Giappone è spesso dipinto dagli occidentali come una società molto rigida e gerarchica. E per certi versi è vero. Ma c'è anche un lato incredibilmente giocoso, una sorta di fame di stimoli, novità e divertimento. Credo sia la fusione di questi due aspetti ciò che rende i loro prodotti così unici. Nel gioco viene riconosciuto uno scopo e persino una necessità nella vita umana.
Arrivando a tempi più recenti, in un capitolo racconti di come è nato il karaoke. Nel libro scrivi: “se in Occidente fu il punk ad abbattere i muri tra professionisti e dilettanti, tra creatori e consumatori, in Giappone furono le giovani scolari e il karaoke on demand”. Come ha fatto uno strumento per cantare a conquistare così tanta importanza?
Il karaoke è stato il primo dispositivo in assoluto che ha permesso a dei dilettanti allo sbaraglio di sentirsi dei professionisti per la durata di una canzone. Ora diamo per scontata la tecnologia che fa sentire professionisti anche coloro che non sanno fare le cose, che si tratti della stabilizzazione dell'immagine nelle macchine fotografiche o dei filtri di Instagram e di altri social media che fanno sembrare belle anche le foto più brutte.
Noi, come specie, siamo quasi definiti dalle tecnologie che ci assistono e, a volte, ci fanno credere di essere più intelligenti, migliori o più forti di quanto non siamo. Tutto questo è iniziato con il karaoke: è stato il primo apparecchio che ha permesso a chi non sapeva cantare di presentarsi davanti a una sala e di intrattenerla. Il karaoke è stata una tecnologia che ha assolutamente dato potere alle persone, a tutti, dai salaryman alle studentesse. Sono state loro negli anni Novanta e poi nei primi Duemila a fare tendenza e ad essere all’avanguardia nella tecnologia.
E in effetti sono state giovani studentesse a scambiarsi i primi sms con i cercapersone e ad intuire le potenzialità dei caratteri di una tastiera per creare le emoji. Il concetto di “essere connessi” lo hanno inventato delle adolescenti cresciute negli anni 90 che passavano i pomeriggi nel quartiere di Harajuku?
Esattamente. La lingua giapponese ha un aspetto particolare: i numeri possono essere letti come suoni fonetici. Quindi, se si digita una stringa di numeri è possibile riuscire a scrivere delle frasi. Le studentesse ne intuirono le potenzialità e iniziarono ad utilizzare i cercapersone come strumenti di messaggistica. Quando l'azienda produttrice di cercapersone si rese conto che le loro principali acquirenti erano delle adolescenti, iniziò a espanderne le funzionalità aggiungendo schermi sempre più grandi in modo da poter inviare messaggi di testo.
Poi nel 1999 è arrivato Internet per i primi dispositivi mobile, solo che la larghezza di banda era ancora molto limitata. I file con le immagini erano troppo pesanti ed era impossibile scambiarne tante. Così i provider di Internet inserirono i primi set di tastiere che permettevano di scrivere e riprodurre immagini stilizzate sullo schermo. Ancora una volta furono le studentesse a fare da apripista: cuori, faccine e frecce.
Vanno cercate qui le radici della moderna cultura della comunicazione digitale. E ad inventarla sono state studentesse, giovani donne per le strade di Tōkyō. Si scattavano selfie, si scambiavano emoji, mandavano messaggi, usavano Internet mobile. Non sapevano cosa stessero facendo, ma lo stavano facendo dieci anni prima che tutto questo arrivasse in Occidente.
Le adolescenti furono anche quelle che “raccolsero i pezzi del mondo creato dai salaryman quando il “Giappone s.p.a” crollò negli anni Novanta con lo scoppio della bolla economica”.
Il salary man è la parola giapponese che indica un impiegato, qualcuno che fa un lavoro da colletto bianco. Fino alla Seconda Guerra Mondiale il Giappone era una società prevalentemente agricola. Andare in un ufficio in un grande edificio era visto come un modello a cui aspirare. Una volta che si otteneva un lavoro in un'azienda si era assunti per tutta la vita. Si sviluppava un senso di lealtà molto forte. Si faceva di tutto per l’azienda perché questa si prendeva cura di te. In tutta la carriera si lavorava per una, massimo due aziende. Era cosa comune.
Questo modello è crollato con lo scoppio della bolla economica nel 1990: quando le aziende hanno iniziato a licenziare i dipendenti è diventato ovvio che non sempre al primo posto vengono gli interessi dei dipendenti. Il Giappone è stato il primo paese a sperimentare la gig economy. Non a caso in quegli anni è stato coniato il termine freeter (フリーター, Furītā), ovvero una persona che passa da un lavoro part-time ad un altro per tutta la vita. Allo stesso modo di chi oggi lavora con il proprio smartphone a Uber Eats.
Ecco perché negli anni Novanta molti dei prodotti giapponesi sembravano così futuristici e unici: sono stati creati per giovani che stavano lottando in una società in rapido cambiamento, decenni prima che gli stessi fenomeni colpissero l’Occidente.
Yamaguchi Yuko, manager di Hello Kitty dal 1980, è stata la prima donna designer che ha continuato a lavorare nella Sanrio anche dopo i 25 anni (le donne abbandonavano il lavoro molto giovani per dedicarsi alla famiglia ndr), ha minacciato di dimettersi se la dirigenza non avesse promosso in ruoli dirigenziali anche altre colleghe e portato avanti una lotta interna perché l’azienda non licenziasse molti talenti femminili. Secondo te possiamo guardare a Yamaguchi come ad un’icona femminista? Lei ha mai parlato di sé in questi termini?
Non so se lei si consideri tale, ma credo proprio di sì. Si è sempre battuta per i diritti delle donne, almeno nella Sanrio, la sua azienda. Non ha marciato sotto il Parlamento e non è stata coinvolta in politica, ma all'interno dell’azienda si è battuta strenuamento per le dipendenti donne.
È buffo perché credo che molti osservatori in Occidente confondano Hello Kitty con una mascotte antifemminista perché sembra non avere la bocca e non poter parlare; appare passiva, debole. Ma questo è un grande fraintendimento di ciò che è Hello Kitty. All’inizio era una semplice decorazione, ma si è trasformata in una sorta di avatar per la sensibilità delle giovani donne, una bandiera sotto cui radunarsi. È uno strumento di comunicazione. E quando si comunica e si creano legami, si diventa più forti. Hello Kitty è una delle ragioni per cui le studentesse giapponesi sono diventate una forza nel Giappone degli anni '90: l'hanno usata come strumento di coesione per creare amicizie e per avvicinarsi l'una all'altra.
E se ci pensiamo bene non è un fenomeno unico circoscitto al Giappone. Decenni dopo in America, con l'insediamento di Donald Trump alla presidenza, si è svolta una grossa marcia per i diritti delle donne a Washington, D.C. e tutte le partecipanti hanno indossato dei cappelli rosa con le orecchie da gatto. La donna che li ha disegnati, quando l'ho intervistata, mi ha detto di essere letteralmente cresciuta nei negozi della Sanrio e di essersi ispirata molto a Hello Kitty. Chiunque dica che Hello Kitty non è un'icona femminista, credo che stia completamente fraintendendo il personaggio.
Quanto hanno impattato videogiochi giapponesi e aziende come la Nintendo nell’immaginario collettivo delle giovani generazioni in Occidente?
Penso che si possa dire molto dal momento in cui, ad esempio, il film di Super Mario Bros. fa 1 miliardo di dollari di incassi in tutto il mondo. È davvero impressionante per un personaggio che ha 40 anni. Ed è una testimonianza di quanto siano amati i personaggi di quel momento: non si tratta solo di Mario, ma anche dei personaggi della serie The Legend of Zelda o di Space Invaders e Pac-Man. Sono riferimenti che continuiamo a trovare ancora oggi nei film e nella cultura popolare.
Possiamo dire che gli americani hanno inventato i videogiochi, ma sono stati i giapponesi a perfezionarli negli anni '80 e trasformarli nella forma d'arte moderna che sono oggi. Prima erano una specie di hobby per passare il tempo quando ci si annoiava. Il Giappone ha trasformato i videogiochi in uno stile di vita, introducendo mondi virtuali più avvincenti. E ancora oggi sono in grado di farlo.
C’è un altro elemento poi da sottolineare: i videogiochi giapponesi tendono a non essere violenti come quelli che vediamo in Occidente – pensiamo a Grand Theft Auto sviluppato da una casa di produzione britannica o la serie di simulazione militare Call of Duty. In un gioco come Monster Hunter bisogna collaborare tra player per sconfiggere il nemico comune.
Oggi la Corea del sud ha preso il posto del Giappone nell’immaginario pop? Perché è stata una serie come Squid Game ad avere un successo planetario e non la giapponese Alice in Borderland?
Non credo che il soft power sia una risorsa limitata, un gioco a somma zero. Quando un Paese ottiene il soft power, non lo ottiene a spese di quello di un altro Paese. Questa è una delle differenze fondamentali tra soft power e hard power. Quando si ha potere militare è un gioco a somma zero. Io invado il tuo Paese o tu invadi il mio. Le sanzioni economiche o le azioni diplomatiche saranno sempre un gioco a somma zero. Il soft power no, è completamente diverso.
Il fatto che, ad esempio, la musica sudcoreana sia incredibilmente popolare non significa che smettiamo di consumare videogiochi giapponesi. Se un film coreano come Parasite vince il premio Oscar non vuol dire che non guarderemo mai più un film giapponese, lo dimostra il fatto che il film del 2021 Drive my car di Hamaguchi Ryūsuke ha avuto un enorme successo.
Il soft power è guidato dal potere dell'immaginazione. E credo che il potere dell'immaginazione umana sia per molti versi infinito. Soprattutto quando si tratta di cose che amiamo. La Corea del Sud non ha sostituito il Giappone. È solo che ora la Corea del Sud adesso compete su un piano di parità.
Credo che invece i motivi per cui Squid Game abbia avuto successo e non Alice in Borderland siano strutturali. In Corea del Sud ci sono molti più coreani che hanno una conoscenza approfondita della cultura americana rispetto ai giapponesi. Molti di loro sono tornati per fare prodotti che non piacciono solo al loro pubblico, ma anche all’estero. È una società più internazionale sotto molti aspetti rispetto al Giappone, che invece tende ad essere isolato.
Tutti questi prodotti provenienti dall'Asia non sono rivali dell'Occidente. Sono solo un altro modo di guardare il mondo. E credo che soprattutto i giovani siano affamati di nuovi modi di affrontare la vita. Il Giappone è stato a lungo un pioniere in questo senso. Il caso della Corea del Sud è più recente, ma credo che entrambe offrano un enorme potenziale per aprire gli occhi alle persone e dire che non esiste solo l’Occidente.