Inquinamento turistico
Il numero di turisti in Giappone sta toccando cifre record, ma le amministrazioni corrono ai ripari per arginare i disagi dell'overtourism per la popolazione locale.
Passati gli anni della pandemia, il turismo in Giappone ha ripreso a pieno ritmo. Nel solo trimestre gennaio-marzo il numero di turisti stranieri ha superato gli otto milioni. Una cifra record, incentivata anche dal fatto che lo yen ha perso un terzo del suo valore rispetto al dollaro.
L’obiettivo del governo è quello di raggiungere i 60 milioni di visitatori annuali entro il 2030, andando più che a raddoppiare i 25 milioni del 2023. Quello del turismo è un ottimo risultato economico che però va a scontrarsi con tutti i problemi legati al turismo di massa che in giapponese viene definito “inquinamento turistico" (Kankō kōgai, 観光公害).
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Barriere e divieti
È di questi giorni la decisione del comune di Fujikawaguchiko, nella prefettura di Yamanashi, di installare una barriera alta due metri e mezzo in un punto molto noto per la visuale che si ha sul monte Fuji. Il vulcano, infatti, svetta al di sopra di un konbini, il mini-market che deve il suo nome alla parola inglese convenience store. In questo modo si vuole evitare che i turisti, muniti di macchina fotografica o smartphone, affollino il piazzale e la strada antistante per fotografare i due simboli per eccellenza del Giappone classico e contemporaneo.
“È spiacevole dover fare una cosa del genere perché alcuni turisti non riescono a rispettare le regole”, ha dichiarato un rappresentante delle istituzioni locali all’agenzia di stampa AFP.
Una decisione così drastica è stata presa dopo che le insegne e gli ammonimenti degli agenti di sicurezza sono stati ripetutamente ignorati. Lo studio dentistico di fronte al konbini ha denunciato spesso la sosta non consentita di macchine nel proprio parcheggio e episodi in cui alcuni turisti avrebbero persino provato ad arrampicarsi sul tetto per trovare lo scatto migliore.
Ma la città più colpita dall' inquinamento turistico è sicuramente Kyoto, l’antica capitale del Giappone. L’instagrammabile quartiere di Gion attrae ogni giorno orde di turisti curiosi di vedere - e fotografare - le geiko in eleganti kimono passeggiare per le strade dove ancora sorgono le okiya, le case nelle quali vengono istruite le apprendiste geisha.
Dallo scorso marzo l’amministrazione comunale ha deciso di vietare ai turisti l’accesso nelle stradine private, dopo che già nel 2019 era stato introdotto il divieto di scattare fotografie nel quartiere - evidentemente non rispettato. A essere disatteso è anche il divieto di non toccare o importunare le geiko, ma come ha scritto recentemente Junko Terao su Internazionale le apprendiste geisha vengono “avvistate e braccate dai turisti come animali selvatici in un safari”.
Provvedimenti sono stati presi anche per chi, quest’estate, vorrà scalare il monte Fuji. Ci sarà un rincaro di 2000 yen (circa 12 euro) sul biglietto di accesso al sentiero, e sarà introdotto un tetto massimo di ingressi. Tra le conseguenze del sovraffollamento c’è quello dell’aumento degli incidenti e dell’accumulo di rifiuti lungo il percorso.
Consumare il mondo
Il sociologo Rodolphe Christin, nel libro del 2019 “Turismo di massa e usura del mondo”, ha definito l’epoca ipermoderna come dromomaniaca, cioè sconvolta dall’automatismo deambulatorio.
“Il movimento dà l’impressione di poter consumare il mondo. Ammantandosi di buone intenzioni che rimandano al risparmio energetico e alla scoperta dell’immensa diversità naturale e umana, la mobilità è diventata un modello di comportamento che influenza notevolmente l’immaginario sociale, il tempo libero e persino le scelte professionali. [...] Il turismo è la punta di diamante dell’ideologia edonista associata al muoversi nello spazio”.
Quanto più il turismo è invasivo tanto più rende i luoghi invivibili per i suoi residenti. E se questo processo è evidente in città come Roma o Napoli (dello spopolamento dei centri storici se ne è occupata a lungo Sarah Gainsforth), in Giappone - o pensiamo anche al Sud Est asiatico - il turismo si fa ancora più arrogante e predatorio.
Comportamenti inappropriati sui mezzi pubblici, schiamazzi intorno a luoghi di preghiera come templi e santuari, incisioni dei propri nomi su più di cento alberi di bambù nella foresta di Kyoto. C’è chi alla fine, stanco di assecondare gruppi di turisti con gli stick in mano, ha deciso di appendere fuori dal proprio locale le insegne “No Foreigners” e “Japanese Only” (“non sono ammessi stranieri” e “solo clienti giapponesi”). E il problema non riguarda solo i visitatori occidentali, ma anche quelli asiatici. Il turismo in Asia è, infatti, prevalentemente asiatico.
Nella cultura nipponica è noto il concetto di omotenashi, che potremmo tradurre - con tutti i limiti del caso - con la parola “ospitalità”. Come fa notare Matt Alt nel podcast “Pure Scope” curato insieme a Patrick Macias, per un turista diventa difficile comprenderne il significato se non parla la lingua o se, esempio banale, non sa che prima di entrare in casa ci si toglie le scarpe (non dimenticherò mai il volto terrorizzato del gestore del ryokan in cui provai a entrare con le scarpe la prima notte di pernottamento a Tokyo - ero una giovane studentessa di lingue orientali per la prima volta in Asia, siate gentili).
Una barriera che diventa ancora più invalicabile se pensiamo che il 70% dei turisti stranieri si concentra soprattutto nelle tre città metropolitane di Tokyo, Kyoto e Osaka. Il governo sta mettendo in campo politiche per rendere attrattive anche città e aree rurali meno battute dai circuiti turistici, ma a quale categoria di turisti ci si rivolge esattamente? Quanti sono disposti a lasciare la frenetica Tokyo per andare in cittadine di campagna senza servizi, e senza parlare la lingua per di più? Quale sarà l’impatto sulle comunità locali? Qual è il modello “sostenibile” che permetterà di gestire 60 milioni di turisti l’anno senza andare a creare ulteriori disagi per la popolazione locale? Si applicheranno nuove barriere e altri divieti?
Da quando sono tornata a gennaio da Taiwan, non faccio altro che pensare al prossimo viaggio in Asia. Consulto in maniera ossessiva i prezzi dei voli e solo l’idea di acquistare i biglietti mi mette frenesia. Eppure, ho iniziato da tempo a vivere l’esperienza in maniera meno spensierata e sicuramente più conflittuale.
Da un lato c’è la consapevolezza di contribuire a un’industria predatoria che ha reso ogni posto accessibile, omologato e a prova di Instagram; dall’altra l’impossibilità di non riuscire a fare a meno di inebriarsi pensando al prossimo viaggio in una capitale europea, nella gettonatissima Bali o nelle risaie del Vietnam.
In una recente riflessione sul tema, legata soprattutto alla relazione tra turismo e etica ambientale, il giornalista Ferdinando Cotugno scrive:
“non c’è soluzione facile a questo dilemma, forse viaggiare va considerato con un vizio necessario, come l’alcol. Ci saranno gli astemi, chi si rovina la vita, chi comincia ora, chi ha appena smesso, chi lo fa in modo nevrotico e chi con genuino piacere. Chi diventa insopportabile e chi piacevole”.
E conclude:
“Bourdain diceva che «viaggiare ha a che fare con quella meravigliosa sensazione di barcollare nell’ignoto», privilegio oggi quasi del tutto scomparso, assassinato a colpi di hashtag e Lonely Planet, però c’è ancora una forma di ignoto accessibile, come reagiamo noi all’infinitamente noto della varietà del mondo, e alla fine ci sono cose di noi che scopriamo solo spostandoci”.
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Tema stimolante e molto controverso: viaggiare è un modo di amare un luogo, ma forse anche contemplarlo da lontano potrebbe esserlo altrettanto
Molto interessante! Trovo che l'interpretazione di Christin, in particolare, sia molto originale, mi ha fatto ripensare a "Giorni selvaggi", un bellissimo memoir sulla vita da surfista di William Finnegan che parla invece della smania di viaggiare per "vedere", anche senza capire, per il gusto di aver visto. Ultima cosa: qualche tempo fa il podcast quotidiano di El País ha fatto proprio una puntata sulle persone che hanno smesso di viaggiare o che stanno limitando fortemente i loro viaggi per motivi etici o ambientali. Se mastichi lo spagnolo te la link volentieri :)