Le violenze sessuali dei soldati statunitensi a Okinawa
Nell'isola meridionale del Giappone sono riesplose le proteste dei cittadini contrari alla presenza delle basi militari dopo alcuni casi di violenze sessuali commesse da soldati americani.
Se c’è un luogo dove sono visibili ancora oggi le tracce dell’occupazione americana nel Giappone del secondo dopoguerra questo è sicuramente Okinawa. Un’isola che rappresenta solamente lo 0,6% del territorio giapponese nazionale e che ospita il 70% delle strutture militari statunitensi del paese.
Più di 30 mila soldati (dei 50 mila in tutto il Giappone) sono di stanza in questo avamposto strategico che ancora oggi assicura agli Stati Uniti una presenza militare massiccia nel Pacifico. Senz’altro una garanzia di sicurezza per il Giappone il cui conto, però, è fatto a spese della popolazione civile.
Come scrive Andrea Revelant ne “Il Giappone contemporaneo”, la convivenza tra popolazione civile e militari statunitensi si fa complicata già all’inizio degli anni Cinquanta quando migliaia di persone sono costrette ad abbandonare i propri terreni e le proprie abitazioni per far posto alle basi militari americane. Ma la situazione non cambia nemmeno dopo il 1972, anno della restituzione della prefettura di Okinawa al Giappone: le basi americane rimangono e le violenze più terribili vengono perpetrate sui corpi delle donne.
Benvenuti e benvenute alla puntata #18 di Japanica.
La rabbia degli abitanti di Okinawa
In questi ultimi giorni centinaia di persone sono scese per le strade di Naha, capoluogo di Okinawa, per manifestare contro gli ultimi due casi di violenza sessuale resi noti dalle autorità nazionali solo a distanza di mesi.
Entrambi gli episodi vedono coinvolti due giovanissimi soldati americani di 21 e 25 anni che avrebbero commesso o tentato di commettere una violenza sessuale su due donne, di cui una appena sedicenne.
I fatti risalirebbero a maggio, in un caso, e a dicembre 2023 nell’altro. Nonostante entrambi i sospettati siano stati arrestati dalla polizia locale, le autorità nazionali non hanno diffuso l’informazione scatenando la rabbia della popolazione di Okinawa.
“La situazione è orribile”, ha dichiarato l’attivista Oyakawa Shinako al South China Morning Post, “Nessuno prende le nostre difese. Il governo giapponese continua a esporre gli abitanti di Okinawa a questo tipo di rischio e le vittime non ricevono alcun tipo di aiuto”.
“Ci hanno detto per decenni che l’esercito americano è qui per proteggerci, ma è vero il contrario. Le persone sono furiose e spero che questo possa essere un punto di svolta per le basi a Okinawa”, ha aggiunto Oyakawa.
In una conferenza stampa, il portavoce del governo Hayashi Yoshimasa ha dichiarato che i due casi non sono stati immediatamente resi pubblici per “proteggere la privacy delle vittime”. Una spiegazione che è apparsa più come una debole scusa agli abitanti dell’isola.
Hayashi ha poi aggiunto che almeno altri tre casi analoghi ai due già citati sono avvenuti a febbraio e agosto del 2023, e a gennaio di quest’anno. Non ha rilasciato, però, ulteriori dettagli.
Lo stupro del 1995
È il 4 settembre del 1995 e una giovane di 12 anni sta camminando lungo il tragitto per casa, con indosso ancora la divisa scolastica, quando viene afferrata e scagliata contro il sedile posteriore di un’auto a noleggio.
Dentro la macchina ci sono tre soldati americani di 20, 21 e 22 anni che le legano con un nastro mani e piedi, le coprono la bocca e dopo essersi resi conto che la ragazza li stava fissando terrorizzata le bendano anche gli occhi.
La 12enne verrà stuprata più volte prima di essere gettata dall’auto in uno stato di incoscienza nel caldo ancora torrido di fine estate. Creduta morta, la giovane okinawana riesce a trascinarsi fino a una strada trafficata, chiedere aiuto e denunciare l’accaduto.
Il caso fa esplodere le proteste in tutta l’isola, i media nazionali e internazionali seguono gli sviluppi della vicenda. I movimenti cittadini antimilitari e contrari alla presenza delle basi americane chiedono la revisione dello U.S. - Japan Status of Forces Agreement (SOFA), l’accordo firmato nel 1960 tra i due paesi.
Le principali criticità riguardano la difficoltà del sistema giudiziario giapponese nell’ottenere la collaborazione da parte di quello americano. Proprio per via del SOFA, alcuni militari statunitensi sono stati spesso trasferiti negli Stati Uniti prima che la corte giapponese presentasse formalmente i capi d’imputazione. Questo perché, se l’indiziato non viene arrestato fuori dalla base militare dalle forze di polizia locali, la custodia rimane in capo agli Stati Uniti.
Quest’ultima condizione è stata rivista proprio in seguito allo stupro del 1995. Gli Stati Uniti - recita l‘articolo del SOFA - “prenderanno in considerazione qualsiasi richiesta di trasferimento della custodia prima che l’incriminazione dell’imputato venga avanzata dal Giappone”.
Nel 2014 l’agenzia di stampa Associated Press ha pubblicato alcuni dati ottenuti grazie ai FOIA, le richieste di accesso agli atti: tra il 2005 e il 2013 si sono registrati più di 1000 casi di molestie e reati sessuali che hanno coinvolto personale militare americano.
Analizzando gli oltre 600 documenti, AP ha potuto riscontrare che casi gravi di violenze venivano ridotti dalla corte marziale a reati minori se non addirittura archiviati. Su 270 casi, il corpo dei Marines ha condannato solo 53 persone; ma i numeri diventano ancora più irrisori se si guarda ai Navy: 15 condanne detentive su 203 casi totali.
In generale solo il 24% degli imputati finisce davanti la corte marziale.
L’immagine simbolica dello stupro come perdita di identità
Nei racconti e nei romanzi del dopoguerra di scrittori sia giapponesi che okinawani, l’umiliazione della sconfitta e della conseguente occupazione americana sono spesso espresse attraverso l’immagine della violazione della donna. Anche la descrizione del paesaggio distrutto dalla guerra viene fatta utilizzando la metafora della “penetrazione” forzata a opera di uno straniero.
Come spiega Michael S.Molasky in “The American Occupation of Japan and Okinawa: Literature and Memory”, dal momento che la mascolinità e la nazione vengono concepiti in termini di “dominazione sessuale”, guardare all’uomo come vittima diventa un ossimoro: ad essere soggiogata e violata è la donna.
Gli scrittori trovano così il modo di prendere le distanze dal senso di umiliazione e da quella virilità strappata dagli occupanti servendosi della dimensione simbolica dello stupro.
Un’immagine fortemente criticata da scrittrici come Kōno Taeko, una delle prime donne a entrare nel comitato del Premio letterario Akutagawa, che per esprimere il proprio disappunto e indignazione rispose con un’iperbole piuttosto feroce:
“Quando abbiamo perso la guerra sarebbe stato meglio che i vincitori stuprassero tutte le donne del Giappone, una per una”.
Questo per dire che in un’eventualità così estrema, forse gli uomini avrebbero smesso di servirsi di quest’immagine da una prospettiva esclusivamente maschile per descrivere la propria perdita di virilità e identità, ignorando totalmente il carico di violenza e dolore che viene inflitto alle donne.
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