Perché negli Stati Uniti si torna a parlare dell'internamento dei nippoamericani durante la Seconda guerra mondiale
La deportazione di centinaia di venezuelani in El Salvador e la repressione politica contro gli attivisti sono legate alle vicende personali e giudiziarie dei giapponesi americani confinati nel 1942.
Sono le tre di notte e me ne sto sdraiato senza prendere sonno su un letto a castello a Jena, in Louisiana, lontano da mia moglie Noor, che tra due settimane partorirà nostro figlio. Il rumore della pioggia che batte sul tetto di metallo copre il russare di settanta uomini che continuano a rigirarsi sui materassi duri di questo centro di detenzione gestito dall’Immigration and Customs Enforcement.
[...] Perché protestare contro l’uccisione di migliaia di innocenti palestinesi da parte di Israele dovrebbe comportare l’erosione dei miei diritti costituzionali?I miei legali hanno citato un caso dal nome Endo che potrebbe essere applicato al mio. Giorni dopo, nelle mie ricerche in biblioteca, ho scoperto la storia umana che si nasconde dietro all’astrazione giuridica. Mitsuye Endo, donna nippoamericana incarcerata durante la Seconda Guerra Mondiale, ha sfidato i propri carcerieri e ha portato il suo caso alla Corte Suprema. La sua vittoria ha contribuito a liberare migliaia di altre persone.
Quello che avete appena letto è un estratto della lettera inviata negli scorsi giorni da Mahmoud Khalil, attivista palestinese e neolaureato della Columbia University detenuto negli Stati Uniti dall’8 marzo. Khalil è stato prelevato in casa di notte da uomini in borghese e poi trasferito in un centro di detenzione in Louisiana senza che i suoi legali e familiari potessero mettersi in contatto con lui.
L’arresto di Khalil, che è in possesso di una carta di residenza permanente, ha rappresentato il primo caso di repressione politica da parte di Trump e della sua amministrazione contro gli studenti e le studentesse che hanno manifestato negli scorsi mesi contro il genocidio in corso a Gaza e contro l’autonomia nelle università.
Venerdì 11 aprile, una Corte della Louisiana ha stabilito che Khalil potrà essere espulso dagli Stati Uniti nonostante non sia stata presentata alcuna prova che giustifichi il ritiro della green card. L’unico elemento depositato presso la Corte è stata una breve nota del Segretario di Stato, Marco Rubio, secondo cui le dichiarazioni pubbliche di Khalil sono “contrarie agli interessi primari in politica estera” degli Stati Uniti.
Per cercare di tirare Khalil fuori dal carcere, i legali hanno ripreso in mano il caso della nisei (nippoamericana di seconda generazione) Mitsuye Endo, che ha trascorso gli anni dal 1942 al 1945 nei campi di concentramento di Tula Lake, in California, e quello di Topaz, nello Utah.
Scrive ancora Khalil nella lettera:
L’incarcerazione di 70mila cittadini americani di origine giapponese ci ricorda che la retorica della giustizia e della libertà oscura la realtà: troppo spesso gli Stati Uniti sono stati una democrazia di facciata. [...] Mi auguro che quanto scritto vi faccia comprendere che una democrazia per alcuni – una democrazia di facciata – non è affatto una democrazia.
Benvenute e benvenuti alla puntata #44 di Japanica. Avevo iniziato a scrivere prima di Pasqua, poi le cose si sono trascinate come al solito per le lunghe ma mi sembrava un peccato aspettare fino a domenica prossima per pubblicare la newsletter. E quindi, eccoci qui, eccezionalmente di mercoledì.
Un breve annuncio prima di cominciare: venerdì 2 maggio sarò al Far East Film Festival di Udine. Insieme a Asuka Ozumi, avrò la fortuna di presentare “Noia terminale” di Suzuki Izumi (Add Editore). Se siete da quelle parti e volete saperne di più di una scrittrice incredibile pubblicata per la prima volta in Italia, ci si vede lì!
Internamento
Sono trascorsi circa due mesi dall’attacco a Pearl Harbor da parte della Marina imperiale giapponese quando, il 19 febbraio 1942, il presidente Franklin D. Roosevelt firma l’ordine esecutivo 9066.
Il nemico non è solo dall’altra parte del Pacifico, ma è anche in ogni cittadino di origine giapponese che vive in territorio statunitense, in particolare sulla West Coast dove si è insediata, a partire dalla fine dell’Ottocento, una numerosa comunità nippoamericana.
Non importa se molti di questi abbiano la cittadinanza americana o se i più giovani non parlino la lingua d’origine: tutte le persone di discendenza giapponese sono considerate una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale americana.
I raid senza mandato di perquisizione o di cattura erano già iniziati subito dopo lo scoppio della guerra, come ricorda Daisuke Kitagawa, un prete cristiano di Seattle:
L’intera comunità fu colpita dal panico come mai prima di allora; ogni uomo viveva nell’attesa di essere arrestato dall’FBI, e ogni famiglia viveva ogni giorno nella paura.
Con l’ordine esecutivo 9066 di febbraio, hanno inizio le evacuazioni di massa che strappano 120mila nippoamericani, di cui 70mila con la cittadinanza americana, dalle proprie abitazioni, fattorie ed esercizi commerciali.
I trasferimenti avvengono tramite treni, bus e furgoni che deportano civili innocenti prima in centri di raccolta - chiamati assembly centers - e poi nei campi di internamento costruiti in zone desertiche degli stati interni. Ricorda così lo spostamento in treno dal centro di Tanforan in California fino al “relocation center” di Topaz, nel deserto dello Utah, Miné Okubo in Citizen 13660:
Il viaggio fu un incubo che durò due notti e un giorno, il treno cigolava a causa dell’età. Era pieno di polvere e, poiché le lampade a gas non funzionavano a dovere, passavamo gran parte della notte in completa oscurità. [...] La prima notte fu una novità dopo quattro mesi e mezzo di internamento. In ogni caso non riuscivo a dormire e passai tutta la notte a sistemarmi il sedile. A molti venne il mal di treno e vomitarono. I bambini piangevano dall’agitazione. Ad un certo punto durante il viaggio un mattone fu gettato dentro una delle carrozze.
I prigionieri vengono stipati in blocchi di baracche polverose esposte alle intemperie. Tutt’intorno, a delimitare l’area, lunghi fili spinati e uomini armati a fare la guardia. I bagni come le aree per pranzare e fare il bucato sono in comune.
Mitsuye Endo
Sul sito Densho (un termine che in giapponese indica qualcosa che viene tramandata di generazione in generazione) è possibile consultare centinaia di testimonianze, fotografie e documenti raccolte dalle migliaia di vittime di una politica che, molti anni dopo, venne definita da una commissione parlamentare il risultato di “pregiudizio razziale, isteria bellica e fallimento della classe dirigente”.
Tra loro c’era anche Mitsuye Endo.
Nel 1942, Mitsuye Endo ha ventidue anni e lavora come dattilografa in una motorizzazione. È una nisei, è nata quindi negli Stati Uniti da genitori giapponesi. Nella primavera di quell’anno, insieme ad altre decine di colleghe e colleghi, riceve un avviso di licenziamento.
Nell’unica intervista che ha rilasciato negli anni successivi, contenuta nel volume And Justice for All: an oral History of the Japanese American detention camps, dirà che l’unica motivazione riportata sul pezzo di carta consegnatole dall’azienda era quella delle origini giapponesi.
Nonostante siano nati negli Stati Uniti, i nisei vengono considerati dalle autorità statunitensi potenziali traditori della patria perché capaci di leggere e scrivere in giapponese e perché iscritti alle scuole buddhiste.
Così Endo viene spedita insieme a tutta la famiglia prima in un centro di raccolta vicino Sacramento, dove la giovane è nata, e poi trasferita nel campo di internamento di Tule Lake, al confine con l’Oregon.
Nel frattempo la Japanese American Citizens League (JACL) aveva nominato un avvocato, James C. Purcell, per cercare di fare ricorso e contestare legalmente i licenziamenti. Nello studio di una strategia difensiva, Purcell si imbatte nel profilo di Mitsuye Endo: è una protestante metodista, ha un fratello che ha prestato servizio nell’esercito americano, non è mai stata in Giappone.
La giovane Mitsuye Endo rappresenta il caso perfetto su cui scrivere il ricorso di habeas corpus che verrà sottoposto al giudice il 13 luglio 1942: “se potete abrogare sezioni della Costituzione e incarcerare qualsiasi persona senza processo o prove solo perché non vi piace la nazionalità, cosa vi impedisce di abrogare parti della Costituzione se non il testo completo?”.
Endo inizialmente è titubante, ma se quello rappresenta l’unico modo per cambiare la propria situazione e quella della propria comunità allora è giusto dare il proprio consenso.
Dopo circa un anno arriva la pronuncia del giudice Michael J. Roche che stabilisce che Endo può tornare libera, ma a una condizione: non fare più ritorno a Sacramento e sulla West Coast, quindi a casa.
Endo rifiuta. Dovrà aspettare ancora un altro anno prima della pronuncia in suo favore da parte della Corte Suprema, nella quale verrà definita una cittadina “indubbiamente leale”.
Il 17 dicembre 1944, gli ordini di confinamento furono revocati mentre i centri di internamento furono definitivamente chiusi entro la fine del 1945.
Dopo la liberazione, Endo si trasferì a Chicago insieme alla sorella. Si sposò poco tempo dopo con Kenneth Tsutsumi che aveva conosciuto proprio nel campo di internamento. Per tutto il resto della sua vita mantenne un profilo basso, persino sua figlia scoprì l’importanza che aveva avuto la madre nel chiudere definitivamente i campi di internamento dei nippoamericani solo all’età di vent’anni.
Mitsuye Endo è morta di cancro il 14 aprile 2006.
Alien Enemies Act
Nelle scorse settimane, centinaia di venezuelani regolarmente residenti negli Stati Uniti sono stati deportati nelle carceri di maxi-sicurezza di El Salvador: luoghi noti per le condizioni detentive estreme e per le continue violazioni dei diritti umani.
Come ha riportato Bloomberg, il 90% dei 238 venezuelani spediti nel Centro de Confinamiento de Terrorismo (CECOT) non ha alcun precedente penale. Alcuni di questi sono stati arrestati solo sulla base di alcuni tatuaggi.
L’impianto giuridico a cui si è appellato Trump per condurre deportazioni in un paese terzo in assenza di un processo è l’Alien Enemies Act, la legge del 1798 usata proprio durante la Seconda Guerra Mondiale contro la comunità nippoamericana.
Sabato 19 aprile, la Corte Suprema ha sospeso l’espulsione di persone migranti potenzialmente soggette all’Alien Enemies Act, bloccando per il momento una procedura di espulsione in corso in Texas.
Trump ha già dimostrato di non voler rispettare la separazione dei poteri politico e giudiziario ignorando la pronuncia di un giudice che ordinava di bloccare i voli verso El Salvador, e rifiutandosi di “agevolare” il rimpatrio di Kilmar Abrego Garcia, un uomo del Maryland deportato nelle carceri salvadoregne per un “errore amministrativo”.
Un ultimo aggiornamento prima di salutarci: Noor Abdalla ha partorito la scorsa notte senza che Mahmood Khalil potesse essere presente al momento del parto. In una breve dichiarazione, Abdalla ha scritto: “Oggi, ho dato il benvenuto in questo mondo a nostro figlio, senza avere Mahmoud al mio fianco. Nonostante la nostra richiesta all’ICE per permettere a Mahmoud di assistere al parto, gli è stato negato il permesso temporaneo. Questa è una decisione deliberata dell’ICE per far soffrire me, Mahmoud e nostro figlio”.
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