Suzuki Izumi, la madrina della fantascienza giapponese tra cyberfemminismo e psichedelia
Add Editore porta per la prima volta in Italia Suzuki Izumi, scrittrice proto-femminista che negli anni Settanta affronta le questioni di genere nei suoi racconti distopici.
Molto tempo fa sulla Terra c’erano solo le donne. Vivevano in pace, finché una partorì una creatura mai vista prima, con il corpo deforme e modi tanto rozzi da risultare fastidiosi. Morì, non prima di aver dato alla luce una progenie: ebbe così inizio la stirpe degli uomini.
Un mondo di donne e donne
Da sempre la scrittura fantascientifica e distopica è appannaggio del mondo maschile. E lo era sicuramente anche in Giappone, alla fine degli anni Sessanta, quando la società era fortemente incardinata in strutture di genere gerarchiche.
Siamo negli anni delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, ma soprattutto in quelli dei riot contro la revisione del Trattato di Sicurezza, l’accordo di difesa tra Stati Uniti e Giappone che regolamenta la presenza di militari statunitensi sul suolo giapponese.
A partire dal 1970, c’era come un senso di fallimento diffuso tra le frange militanti delle organizzazioni studentesche in prima linea nelle proteste: le scissioni interne al movimento della Nuova Sinistra (shin sayoku) segnavano la fine del decennio della politica e lasciavano il passo a quello delle controculture, della liberazione sessuale e della sperimentazione di droghe.
Registi, musicisti e attori di teatro si incontravano nei locali e bar di Shinjuku per dare forma alle avanguardie artistiche che avrebbero contraddistinto il panorama culturale di quegli anni. Gli ingredienti principali che andavano a comporre il nuovo immaginario erano la violenza e l’erotismo.
È in questo contesto che arriva a Tōkyō nel 1969, a vent’anni esatti, la protagonista della puntata di oggi, Suzuki Izumi, che possiamo conoscere grazie al lavoro della casa editrice torinese Add Editore, che ha appena pubblicato per la prima volta in Italia la raccolta di racconti “Noia terminale” (trad. Ozumi Asuka).
Suzuki trova impiego nella metropoli come attrice e modella, dove recita delle parti in alcuni film con il nome d’arte Asaka Naomi e si presta agli scatti del celebre fotografo Araki Nobuyoshi. Seppur Suzuki abbia fatto parlare molto di sé per la sua vita sregolata, in ambito letterario ha rappresentato una cesura: è stata infatti la prima donna giapponese a essere riconosciuta come scrittrice di fantascienza.
Benvenute e benvenuti alla puntata #31 di Japanica.
Un’esistenza tormentata
A darci qualche elemento biografico di Suzuki Izumi è la traduttrice all’edizione italiana di “Noia Terminale”, Ozumi Asuka, che in una nota finale del libro ripercorre la vita della scrittrice.
Suzuki nasce nel 1949 a Itō, nella prefettura di Shizuoka. Dopo il diploma lavora per un breve periodo negli uffici del comune e a vent’anni si trasferisce a Tōkyō, dove recita in alcuni pinku eiga, film erotici softcore, tra cui uno realizzato dal regista Wakamatsu Koji, e collabora con la compagnia teatrale di avanguardia Tenjō Sajiki.
Negli stessi anni, inizia a scrivere racconti e già nel 1969 viene candidata al premio esordienti della rivista Shōsetsu Gendai mentre, nel 1970, entra in finale per la categoria esordienti del premio letterario Bungakukai.
Suzuki continua a scrivere e già pochi anni dopo, nel 1975, debutta nel mondo della fantascienza con il racconto Majo minarai (L’apprendista strega) che viene pubblicato in uno speciale dedicato alla letteratura femminile della rivista specializzata “SF Magazine” accanto a nomi del calibro di Ursula K. Le Guin.
Il suo timido ingresso in un circuito – quello della fantascienza giapponese – esclusivamente maschile procede in parallelo a eventi drammatici che segnano profondamente la vita della giovane scrittrice.
Nel 1973, Suzuki si sposa con Abe Kaoru, sassofonista leggendario ed enfant prodige del jazz giapponese, con cui avrà una figlia nel 1976. Il burrascoso matrimonio termina a distanza di un anno: non molto tempo dopo Abe morirà tragicamente per overdose a soli ventinove anni.
La pubblicazione di racconti di fiction speculativa si interromperà quando la stessa Suzuki deciderà di togliersi la vita, impiccandosi con dei collant davanti agli occhi della figlia.
Era il 1986, e Suzuki aveva trentasette anni.
Una scrittrice visionaria
Come ha scritto in questi giorni Carlo Mazza Galanti su Lucy sulla Cultura, quella di Noia Terminale “è una fantascienza delicata, poco invasiva”:
dettagli ambientali, qualche macchina volante, un pianeta alieno che somiglia alla terra, alcuni device futuristici, qualche sostanza psicoattiva immaginaria, solo in minima parte determinano e sostanziano lo svolgersi delle narrazioni affidate per lo più ai dialoghi e quindi alle relazioni tra personaggi. […] la fantascienza di Suzuki è indubbiamente dotata di un’originalità e una freschezza non comuni.

Fa impressione leggere queste pagine scritte cinquant’anni fa, perché dentro si trovano temi più che mai attuali legati soprattutto alle questioni di genere e alla frustrazione di essere donna in un mondo fatto a misura per l’uomo:
Anche senza guardarmi allo specchio so come stanno le cose. So di essere una casalinga sulla trentina, completamente apatica e frustrata. So anche di vivere in uno di quei condomini squallidi per gente con reddito basso, quelli che vedo dalla finestra.
Ricordi al Seaside Club
Non mi dilungherò molto sulle trame dei racconti, ma per dare qualche accenno agli immaginari creati da Suzuki appare sicuramente iconico il testo con cui si apre la raccolta, “Un mondo di donne e donne” (Onna to onna no yononaka, 1977).
Ci troviamo all’interno di una società matriarcale in un futuro indefinito, dove i pochi esemplari di uomini rimasti sono reclusi in dei campi chiamati Zone di residenza speciale. Suzuki fa intravedere un passato dominato da uomini violenti che “non facevano altro che provocare guerre”. Grandi o piccole che fossero, scrive Suzuki, [le guerre] diventarono la loro ragion d’essere.
E ancora, le questioni di genere le ritroviamo ampiamente presenti in “Picnic notturno” (Yoru no pikunikku, 1981) dove una famiglia aliena si trova a scimmiottare la giornata tipo di una famiglia borghese a partire da testi sulla sociologia e psicologia che spiegano che cos’è il complesso di Elettra, come dovrebbe comportarsi una adolescente nella sua “fase ribelle” e “tutte le regole minuziose di cui hanno bisogno i terrestri per calmare l’ansia”.
«La mamma non ha ancora finito?»
«Forse si starà preparando per uscire?»
«Sì, ma quanto è lenta?»
«Non lo sai? Le donne ci mettono tantissimo prima di uscire.»
«Deve solo cambiarsi, pettinarsi e truccarsi, no?»
«Sì, ma…»
«Cos’altro devono fare?»
«Non saprei… le madri hanno tantissime faccende da sbrigare, suppongo.»Picnic Notturno
Con una “scrittura psichedelica, corrosiva e irriverente, in precario equilibrio tra femminismo, sci-fi e punk” (Paola Scrolavezza), Suzuki Izumi ci porta in un viaggio crudo e grottesco in cui emergono temi come la transizione di genere, la perdita di libido e persino il neocolonialismo.
Leggendo queste pagine è impossibile non pensare a Margaret Atwood e al suo capolavoro The Handmaid’s Tale (1985), al recente body-horror di Coralie Fargeat The Substance o ancora a San Junipero, episodio della serie distopica Black Mirror.
Le droghe nel Giappone degli anni Settanta
Per capire meglio gli anni in cui Suzuki Izumi è vissuta e si è mossa a Tōkyō, mi sono rivolta ancora una volta alla traduttrice Ozumi Asuka. Il racconto che fa Ozumi dei riot di fine anni Sessanta, della nascita della cultura underground e della diffusione di sostante stupefacenti in Giappone è questo:
A un certo punto, nel racconto “Noia terminale”, c’è questo passaggio:
Le strade sono piene di disoccupati. Stanno in piedi, seduti, chiacchierano, suonano.
«Chissà come mai ce ne sono così tanti.»
È tornato di buonumore.
«Perché siamo a Shinjuku.»
«E perché vengono a radunarsi tutti qui, anche a costo di prendere la metro senza pagare?»
«Per lo spettacolo? Per guardarsi a vicenda.»
Negli altri racconti che compongono la raccolta non ci sono riferimenti a luoghi reali specifici, mentre qui Suzuki nomina Shinjuku. Mi è tornato in mente il termine fūtenzoku (lett. tribù dei pazzi, ma anche tribù dei vagabondi): si tratta di un’espressione coniata negli anni Sessanta per indicare i giovani anticonformisti nullafacenti che si radunavano e che talvolta giacevano storditi per strada, nei pressi di Shinjuku higashiguchi – l’uscita est della stazione.
Parole chiave: sedativi, modern jazz e sesso libero.
Jazz bar, compagnie teatrali, gay bar e locali per il sesso cis-etero a pagamento coesistevano nel raggio di poca distanza e forse è grazie a questa tendenza – ad accogliere gli outsider – che Shinjuku diventò la culla della angura bunka, la cultura underground, o controcultura. Negli anni ’60-’70 Shinjuku fu investita del ruolo di quartiere della libertà per antonomasia, nonché scenario di proteste politiche e manifestazioni studentesche, anche violente, concentrate sul lato ovest della stazione.
Ecco com’è nata nella mia testa l’associazione Suzuki/Shinjuku Riot, ovvero quando, il 21 ottobre 1968, la stazione fu occupata in segno di protesta alla guerra in Vietnam. Tra i vari testimoni c’era il fotografo Tōmatsu Shōmei, che l’anno successivo raccolse i suoi scatti nel volume Oh! Shinjuku. E fu proprio alla fine degli anni Sessanta che Suzuki lasciò Shizuoka per la capitale, dove iniziò a lavorare come attrice e modella.
La legge giapponese prevede pene molto severe per il traffico, il consumo e il possesso di sostanze stupefacenti. C’è uno stigma fortissimo nei confronti delle droghe: per i personaggi dello spettacolo coinvolti in storie di abuso di sostanze è quasi impossibile riuscire a riabilitare la propria immagine.
Ma non è sempre stato così: la metanfetamina fu sviluppata in Giappone nel 1919, fu commercializzata con il nome Philopon (dal greco philóponos). Era comune trovarla in farmacia, tanto che i soldati della Seconda Guerra Mondiale ne fecero ampio utilizzo.
Nel dopoguerra – complici la facile reperibilità, la difficile ricollocazione dei reduci di guerra, il clima di disperazione generalizzata che seguì la disfatta e il fatto che era legale – la metanfetamina (assunta spesso per via endovenosa) divenne una vera e propria piaga sociale, finché non fu vietata nel 1951.
Lo scrittore Sakaguchi Ango, per esempio, ne era un consumatore abituale, e il suo uso era molto diffuso anche nell’ambiente dei musicisti jazz.
Nonostante il bando, in certi ambienti le droghe continuarono (e continuano) a circolare: ne trattano alcune opere conosciute anche all’estero come Funeral Parade of Roses (1969) di Matsumoto Toshio o Blu quasi trasparente (1976) di Murakami Ryū.
Suzuki frequentava il mondo della controcultura (si pensi ai suoi legami con Terayama Shūji), e già prima della relazione con il sassofonista Abe Kaoru (morto nel 1978 di overdose da sedativi) bazzicava quello della musica. Erano ambienti che conosceva bene come anche conosceva gli effetti di molte sostanze che lei stessa assumeva, come si può intuire dalla sua scrittura.
Tornando a “Noia terminale”, il racconto fu pubblicato nel 1984: dopo le crisi energetiche del 1973 e del 1979 e un periodo di stagnazione economica, all’inizio degli anni Ottanta c’era un diffuso clima di ottimismo mentre ci si preparava agli anni della bolla.
Ecco, mi piace pensare che ci sia un filo rosso che lega le ragazze e i ragazzi di Shinjuku di quando Suzuki arriva nella metropoli, e i protagonisti del racconto: se i primi dovevano stordirsi con metanfetamine o sedativi, i secondi si fanno iniettare direttamente la dopamina nel cervello.
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