In Giappone c'è una setta cristiana che sostiene Israele
Il 12 novembre si è tenuta a Tokyo una manifestazione al fianco dell'ambasciata israeliana. Quasi tutti i partecipanti fanno parte del movimento cristiano nazionalista dei Makuya.
Il 12 novembre si è tenuta a Tokyo la marcia “We Stand with Israel” al fianco dell’ambasciata di Israele, accolta con favore dall’ambasciatore americano in Giappone, Rahm Emanuel. La manifestazione ha raccolto circa 1200 persone che, nel percorso di un’ora che andava dal parco di Hibiya a Otemachi, hanno chiesto il rilascio degli ostaggi a Gaza e la condanna di Hamas.
Le persone che hanno partecipato alla marcia non sono però “persone comuni giapponesi”, fanno notare in molti su X, l’ex Twitter. La quasi totalità dei presenti fa parte, infatti, di un movimento religioso conosciuto come Makuya, in giapponese キリストの幕屋 , “il tabernacolo di Cristo”.
Benvenutə alla puntata #11 di Japanica.
Il movimento cristiano dei Makuya
Cosa ci fa un gruppo di giapponesi per le strade di Gerusalemme a cantare canzoni in ebraico sventolando bandiere del Giappone e con indosso pettorine con la stella di David? La scena si può vedere in un video di settembre 2022 come in molti altri presenti su Youtube.
Il giornalista israeliano Aviva And Shmuel Bar-Am racconta in un reportage del 2015, sul Times of Israel, che durante una sera trascorsa insieme ad un gruppo di giapponesi del movimento Makuya difficilmente è riuscito a trattenere le lacrime: “quando hanno cantato “Zion, Zion, Zion” sotto la bandiera israeliana, il loro entusiasmo e la loro gioia nel cantare era tale da far tremare la terra”.
Il movimento Makuya è nato nel 1948, nello stesso anno e nello stesso mese della fondazione dello Stato di Israele. Il fondatore, Abraham Ikuro Teshima, è stato un fervente cristiano che ha fatto del ritorno alle origini ebraiche del Cristianesimo il cuore nevralgico del culto in opposizione a quello dogmatico ed ecclesiastico di matrice europea.
Come si legge dalla homepage del sito in lingua inglese, il movimento Makuya, conosciuto anche come Original Gospel, “è cresciuto al di fuori della chiesa istituzionalizzata ed è una propaggine del Movimento non ecclesiastico (Mukyōkai)”.
Il principale mentore di Teshima è stato, infatti, Uchimura Kanzō, un leader religioso profondamente influenzato dal quaccherismo e dal puritanesimo che ha incentrato i suoi scritti sulla ricerca di una “forma strettamente giapponese del Cristianesimo”.
La figura di Abraham Ikuro Teshima
Dopo la sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, Teshima prova a lanciarsi nel commercio di pane fatto a base di alghe. Il sapore però è pessimo e gli affari non vanno granché bene.
In quello stesso periodo viene a sapere che una base militare americana vicino casa si sarebbe espansa e che la scuola elementare di suo figlio avrebbe per questo chiuso. A quel punto Teshima si mette a capo di una mobilitazione locale e organizza una protesta contro gli occupanti americani.
Allertato da un amico di un suo imminente arresto, fugge tra le montagne del vulcano Aso ed è qui che avviene la conversione. Teshima racconterà di aver sentito una frase del profeta Amos: “Verranno i giorni in cui manderò la carestia nel paese: una carestia non di pane e una sete non di acqua, ma delle parole del Signore”.
Quando finalmente tornerà a casa, Teshima chiude la sua attività alimentare e inizia a tenere lezioni sulla Bibbia. All’inizio il gruppo di studenti è molto sparuto, ma gradualmente cresce: nasce così il movimento Makuya.
Per comprendere a fondo lo spirito della Bibbia, sostiene Teshima, bisogna studiare la fede ebraica, la sua storia e la lingua. Il primo incontro con una persona di nazionalità israeliana avviene nel 1954, su un treno giapponese. È il professore Slomnitzki, in missione per conto del Ministero dell’Agricoltura israeliano. Passeranno ancora degli anni prima che Teshima riesca ad andare in visita in Israele: sarà solo nel 1961, quando il Giappone normalizzerà le relazioni diplomatiche con il paese del Medio Oriente.
La crisi energetica del 1973 e l’incerta posizione di Tokyo
Negli anni Cinquanta, con lo scoppio della guerra di Corea, il Giappone diventa uno dei principali importatori di petrolio dai paesi del Golfo, Iraq e Iran. Dieci anni dopo la dipendenza dall’estero di risorse energetiche è dell’80%, il 70% dei quali proviene proprio dal blocco arabo mediorientale, e Iran.
Quando nel 1973 Egitto e Siria attaccano Israele (guerra dello Yom Kippur), i paesi esportatori di petrolio dell’OPEC, per sostenere l’azione militare condotta dai due paesi arabi, stabiliscono un embargo verso i paesi più filoisraeliani provocando un’impennata dei prezzi di greggio al barile.
A quel punto per il Giappone si prospetta una situazione estremamente complicata. Da una parte subisce la pressione dell’Arabia Saudita che incalza per prendere una posizione forte contro Israele, dall’altra accoglie Henry Kissinger, Segretario di Stato degli Stati Uniti, che chiede esattamente l’opposto: non fare alcuna concessione ai paesi arabi.
La confusione e l’avanzare incerto del governo giapponese nel cercare di non compromettere i rapporti con i paesi arabi del Medioriente, da un lato, e non scontentare gli Stati Uniti dall’altro, diventa ancora più evidente con l’attentato all’aeroporto di Tel Aviv per mano di alcuni militanti dell’Armata Rossa Giapponese (sulla vicenda ne avevo scritto qui). Il governo invia immediatamente una delegazione in Israele per le scuse ufficiali e una proposta di compensazione per i familiari delle vittime.
L’azione diplomatica non viene accolta con favore dai paesi arabi che, a loro volta, chiedono delle scuse. A quel punto il ministro degli Esteri giapponese invia un’altra delegazione per chiedere le scuse delle scuse.
L’ambiguità del governo trova il forte dissenso di Teshima che, per le strade di Tokyo, chiama a raccolta più di tremila persone per manifestare a supporto di Israele intonando canti in ebraico.
Abraham Ikuro Teshima, già malato di cirrosi, muore tre settimane dopo all’età di 63 anni.
Il movimento di Makuya oggi
Dalla sua fondazione il movimento ha mandato migliaia di membri della comunità in pellegrinaggio a Gerusalemme per studiare la lingua e la cultura nei kibbutzim.
Non si hanno dati precisi sul numero effettivo di seguaci del movimento, ma gli iscritti alla newsletter sono circa 300mila. A Gerusalemme hanno un loro centro e a tutti i membri che si recano in Israele viene dato un nome ebraico.
I ragazzi e le ragazze che compiono 13 anni vengono portati sul monte Aso – lo stesso dove avvenne la conversione di Teshima – per essere “battezzati”. Sulla pagina Wikipedia in giapponese si legge che i novizi devono camminare tra le fiamme mentre intonano preghiere.
L’oggetto sacro che li rappresenta non è la croce cristiana, segno di sofferenza, ma la menorah, il candelabro a sette braccia simbolo di speranza.
Dagli anni Novanta, il movimento è molto attivo nelle campagne per cambiare i libri scolastici di storia con testi revisionisti sull’imperialismo e le atrocità commesse dall’esercito giapponese.
Nonostante la quasi totale assenza di persone di religione ebraica in Giappone e la distanza geografica con Israele, durante tutto il ventesimo secolo la cultura ebraica ha profondamente segnato l’immaginario di molti scrittori e figure di spicco della società giapponese.
A trovare terreno fertile sono state anche teorie marginali come quella che ricondurrebbe l’origine dei giapponesi alle cosiddette Dieci tribù perdute di Israele, e che è conosciuta come Nichiyu Dōsoron (日ユ同祖論).
Il libro del comandante militare israeliano Joseph Eidelberg “I giapponesi e le dieci tribù perdute di Israele” ha venduto nel 1980 più di 40mila copie, nel 2014 è andato di nuovo in ristampa e gli è stata dedicata una serie tv. Studi accademici e archeologici non hanno mai trovato alcuna evidenza a supporto di questa tesi.
Come viene ricostruito in uno studio a firma dello storico israeliano Rotem Kowner “Lighter than yellow, but not enough: Western discourse on the Japanese Race. 1854 – 1904”, alcuni scienziati e scrittori promotori delle teorie razziali che si recarono nel paese subito dopo l’apertura dei porti alla fine dell’Ottocento, individuarono nei giapponesi delle affinità con gli ebrei per spiegare il fatto che non apparissero “gialli” e “arretrati” come il resto degli asiatici, in particolare dei cinesi.
Di contro il Giappone non è stato neanche immune da tesi cospirazioniste e stereotipi antisemiti importati dall’Occidente. Negli anni Ottanta, l’antisemita Uno Masami scrisse libri che divennero veri e propri best-seller.
Ma di questo ne parleremo un’altra volta.
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