Cos'è davvero la yakuza
In conversazione con Martina Baradel, ricercatrice all'università di Oxford e autrice del libro "Yakuza Blues, vita e morte nella mafia giapponese".
Nelle scorse settimane è arrivata la notizia della fine di un conflitto tra il gruppo yakuza più grande e più potente del Giappone, la Yamaguchi-gumi, e una fazione ribelle che nel 2015 si era distaccata, la Kobe Yamaguchi-gumi. La sua fine è stata dichiarata da alcuni boss della Yamaguchi-gumi che hanno presentato una lettera con una risoluzione unilaterale del conflitto alla questura della polizia, nella prefettura di Hyōgo.
Rispetto ai conflitti che ci sono stati negli anni Ottanta, sempre all’interno della Yamaguchi-gumi, e che hanno portato a sparatorie per strada e centinaia di morti e feriti, la faida di questi ultimi dieci anni è stata una guerra a bassa intensità che però, nell’arco di dieci anni, ha limitato fortemente le attività e le entrate economiche dell’organizzazione.
Proprio di recente Martina Baradel, ricercatrice all’Università di Oxford, ha pubblicato con Rizzoli un libro dal titolo “Yakuza Blues, Vita e morte nella mafia giapponese”. Il volume è il frutto delle sue ricerche svolte negli anni sul campo che l’hanno portata a incontrare diversi boss della yakuza che vengono raccolti, nel libro, nel personaggio di finzione Jun’ichiro Tanaka.
Yakuza Blues attraversa la storia del Giappone dal dopoguerra in poi dalla prospettiva della yakuza, grazie a racconti intimi che i boss hanno affidato a Baradel e uno studio approfondito del tema che rendono il lavoro davvero unico.
Ho raggiunto Martina Baradel al telefono per farle qualche domanda sul libro e capire meglio come è organizzata la yakuza e qual è il suo attuale stato di salute. La seguente conversazione è stata editata per adattarla alla forma scritta e abbreviata per questioni di spazio.
Benvenute e benvenuti alla puntata #45 di Japanica.
Uno degli aspetti che emerge sin dalle prime pagine del tuo libro è il legame che intercorre tra destra nazionalista e yakuza. Quali sono i punti di contatto ideologici tra i due gruppi e quali i reciproci vantaggi?
Destra nazionalista e yakuza spesso si sovrappongono. Dal punto di vista ideologico, la yakuza si sente foriera della tradizione – possiamo discutere di quanto questa tradizione sia più o meno originale o reinventata nel periodo Meiji (1868-1912) – e vuole dare continuità all’immagine di un Giappone feudale fatto di samurai, bushidō, ninkyō e così via.
La yakuza è sempre stata alla ricerca di legittimità per operare e “aiutare” la società giapponese a rimanere come è sempre stata. Nel farlo si è fatta promotrice del culto dell’identità nazionale e di quello dell’uomo giapponese – in questa visione la donna è relegata al ruolo di moglie, hostess o prostituta.
La yakuza poi ha assolto anche a una funzione politica: quando nel dopoguerra fallisce il tentativo di epurare i membri del governo e dell’esercito imperiale – gli americani si accorsero abbastanza presto che senza burocrati non era possibile far funzionare il Giappone – la destra nazionalista diventa per la yakuza l’anello di congiunzione con il governo.
Anche se pensiamo ai decenni successivi, alla Guerra Fredda e alla paura del comunismo con la Russia e la Cina che incombono, la yakuza diventa il braccio armato della destra nazionalista per sedare i gruppi della sinistra rivoluzionaria.
Infine, c’è anche un motivo economico: la yakuza ha spesso usato i gruppi della destra nazionalista per raccogliere fondi.
Sempre rimanendo dentro la tradizione, un altro degli aspetti centrali della yakuza è la liturgia. Come scrivi nel libro, la yakuza ha sempre diffuso i video dei rituali perché vuole essere vista come un’associazione tradizionale, radicata nella cultura, che “fa le cose per bene” (chanto shite iru). E i celebranti, essendo i maestri di cerimonia, hanno un ruolo di primo piano perché incarnano la tradizione.
Sì, quello della cerimonia è un aspetto centrale. Specialmente oggi che è diventato penalizzante far parte della yakuza, i rituali danno importanza, restituiscono orgoglio. Sono centrali per costruire l’identità di una persona che entra a far parte della yakuza.
Dato che essere yakuza, in tempi più recenti, non risulta più conveniente dal punto di vista economico per via dei numerosi ostacoli imposti con le ordinanze, la cerimonialità e tutto quella che rappresenta convince qualche membro a rimanere nella dimensione del gruppo, che in Giappone risulta sempre molto importante.
La fedeltà al proprio gruppo di appartenenza credo sia una caratteristica abbastanza comune e trasversale in generale nella criminalità organizzata, eppure una delle cose che mi ha colpito è che nella yakuza giapponese il legame con il proprio gruppo viene sempre prima di quello con la propria famiglia di sangue. A un certo punto riporti di questa conversazione tra il giovane Tanaka e suo zio, membro di un gruppo yakuza, che gli dice esplicitamente: “non posso prenderti con me: la famiglia è una cosa e l’organizzazione un’altra, e non si possono mischiare. E sai perché? Perché i legami con i miei fratelli del gruppo vengono e verranno sempre prima”.
Se pensiamo alle mafie nostrane come la ‘ndrangheta e la mafia siciliana, queste tendono a mischiare molto i legami di sangue con quelli dell’organizzazione. È molto facile trovare padri, figli e cugini all’interno dello stesso gruppo. Nella società giapponese è un po’ diverso: se andiamo indietro nel tempo e pensiamo a certi tipi di apprendistato per mestieri pericolosi come i tobi (gli operai edili che lavorano sui ponteggi in altezza), o anche ai vigili del fuoco, spesso organizzati in vere e proprie federazioni, il rapporto che si crea all’interno del gruppo non è quello puramente di lavoro, si trasforma piuttosto in un legame fraterno.
Per tornare quindi alla yakuza, credo che questo tipo di struttura rifletta più delle dinamiche sociali che criminali: direi che la yakuza sia abbastanza unica nel porre così tanta attenzione ai rapporti e anche nel formalizzarli in maniera così precisa. Oltre alla relazione oyabun-kobun, dove oyabun significa letteralmente “figura paterna” e corrisponde al boss di un gruppo mentre kobun vuol dire “ruolo del figlio” e indica l’affiliato, questo tipo di rapporti familiari applicati all’interno del gruppo si estendono possibilmente anche ai ruoli di zio, cugino, fratello o nonno.
Una struttura gerarchica così specifica è molto rara, specialmente in gruppi criminali che solitamente non possono permettersi una chiarezza organizzativa come quella della yakuza.
Un altro aspetto che mi interessava approfondire è quello della romanticizzazione intorno agli yakuza, e alla narrazione che si è fatta sia all’interno del Giappone che poi l’esotizzazione che ne è stata fatta in Occidente.
All’interno del Giappone, la yakuza è stata a lungo capace di dettare il modo in cui voleva essere rappresentata. Negli Stati Uniti, ad esempio, i mafiosi italo-americani inizialmente avevano protestato contro “Il padrino” e tutti quei film che parlavano di mafia perché non volevano essere rappresentati in quel modo. La yakuza invece ha avuto l’approccio opposto: dipingeteci in tutti modi basta che ci diate visibilità.
Negli anni ‘60 e ‘70, vengono prodotti i ninkyō eiga, film ambientati nei quartieri popolari di Tōkyō e in città di provincia che raccontano i conflitti tra artigiani e giocatori d’azzardo contro nuovi yakuza e commercianti corrotti. Molti registi si facevano dare consigli e suggerimenti dai membri della yakuza per rendere l’ambientazione e la storia dei ninkyō eiga più veritiera. E, ovviamente, la forte influenza dei clan condizionava anche il modo in cui la mafia veniva rappresentata: non un’organizzazione criminale, ma un gruppo cavalleresco che proteggeva i più deboli dai soprusi dei più forti.
Dopo quindici anni di storie sempre uguali il filone esaurì. Risorse più avanti con il regista Takeshi Kitano. Adesso ci troviamo nel terzo filone che è quello della presa in giro: penso al manga “La via del grembiule - lo yakuza casalingo” (Gokushufudō, in Italia edito da J-Pop) o anche a uno degli ultimi film di Kitano (Ryūzō to shichinin no kobun-tachi) dove ci sono questi sette ex yakuza anziani che una volta lasciato il gruppo non sanno bene dove andare a sbattere la testa. Danno questa immagine un po’ comica e un po’ quella di uomini da compatire.
All’interno del Giappone, la yakuza è sempre riuscita abbastanza bene a prendere le redini della propria narrazione.
Per quanto riguarda la rappresentazione che ne è stata fatta al di fuori, le serie specialmente di produzione americana tendono sempre a dividere tutto in eroi e cattivi: distinzioni così manichee non sono mai veritiere.
Nel corso del libro, dai spazio anche a riflessioni personali in cui ti interroghi sul modo in cui parlare di criminalità organizzata: includere la dimensione umana dei racconti che ti vengono affidati senza incorrere nel rischio di scivolare nel sentimentalismo o peggio di romanticizzare un gruppo che, a tutti gli effetti, è una mafia. Qual è il giusto equilibrio?
È sempre un po’ difficile parlarne, soprattutto quando si tratta di persone che ho incontrato. Vorrei raccontare quello che ho visto e sentito da un punto di vista umano, ma c’è sempre dietro l’angolo il commento di chi dice che voglio “glamourizzare” la yakuza.
Credo che si possa aggiungere della complessità al binomio che li vede o mafiosi o eroi. Ci sono anche molte responsabilità della società giapponese, per le quali molte persone sono diventate yakuza non perché lo volessero.
Ti sei presentata a vari boss della mafia giapponese come ricercatrice donna occidentale. Facendo tutti i discrimini del caso su quello che ti hanno voluto dire e non dire, non credo fosse scontato che si aprissero a racconti così intimi delle proprie esistenze.
Credo che il fatto di essere donna occidentale abbia aiutato. Nel mondo yakuza le donne ricoprono spesso il ruolo di ascoltatrici. Anzi, direi più in generale per gli uomini giapponesi – pensiamo ai kyabakura, i club frequentati da uomini che pagano per parlare con una donna che li ascolti.
In quanto occidentale rimango comunque una persona esterna, a cui è più facile raccontarsi. Non sono poi una giornalista, ma una ricercatrice che è interessata più ad avere una visione d’insieme sul modo in cui si organizzano e si rapportano al mondo esterno.
A volte ha influito anche la quantità di alcol che hanno ingerito (ride, ndr): è successo che la mattina dopo si pentissero di cose dette la sera prima, ma io non cerco lo scoop e loro comunque non scendono mai nel dettaglio di quello che fanno e preferiscono parlare delle attività più o meno semi-legali che seguono.
In generale, credo che prevalga anche sugli yakuza il desiderio di volersi raccontare.
Nel libro racconti anche di alcune donne - molto poche - che sono riuscite a ritagliarsi delle posizioni più rilevanti.
Sì, sono casi più unici che rari. Le eccezioni che confermano la regola. I casi che tratto sono quattro, di cui due mogli di boss che hanno preso il ruolo del marito per un periodo limitato – qualche mese o al massimo un anno – e due donne che volevano proprio essere affiliate, membri della yakuza alla pari di altri uomini. In questo caso deve esserci un boss che sia disponibile ad accoglierti, che è probabilmente raro quanto una donna che voglia entrare nel gruppo.
Le donne di cui ho raccontato la storia non sono riuscite a raggiungere alti ranghi o rompere il tetto di cristallo.
Dal dopoguerra in poi la yakuza ha sempre avuto una grande capacità di adattamento, soprattutto dal punto di vista economico, che le ha permesso di sopravvivere ai cambiamenti della società – dalla risoluzione di contenziosi tra commercianti sul territorio fino al sōkaiya, una forma di estorsione aziendale nella quale la yakuza si specializzò negli anni del boom economico e che tu spieghi nel libro. Tuttavia, uno dei mercati su cui la yakuza fa eccezione rispetto ad altri gruppi della criminalità organizzata è il controllo del traffico di droghe e sostanze stupefacenti, su cui in generale preferisce tenersene alla larga fatta eccezione per alcune iniziative di singoli membri. Perché?
La yakuza ha la missione di voler far parte della società, magari non del tutto alla luce del sole ma vuole farne parte. Per quanto possa essere in una zona grigia, la yakuza è comunque regolata dallo Stato: è uno dei pochi gruppi criminali per cui abbiamo degli elenchi ufficiali che riportano i gruppi attivi e le rispettive sedi. Questa sorta di limbo legale ha sempre dato grandi vantaggi che gli ha permesso di avere i propri uffici, un’interlocuzione con la polizia, operare in varie attività. Per questo motivo hanno sempre cercato di non strafare.
Dal punto di vista ideologico, dato che si presentano come forieri della tradizione e protettori della società non vogliono essere associati a qualcosa di deleterio. Decidere di guadagnare meno dalla droga mantenendo però l’immagine sociale permette di stare in molte altre attività: il settore dell’intrattenimento, quello della protezione e del controllo di alcuni mercati.
Così facendo la yakuza tutela la propria immagine di organizzazione affidabile con una responsabilità sociale. Non dimentichiamoci poi che in Giappone ci sono tra le pene più severe in materia di droghe, dove anche il consumo di quantità minime di droghe leggere può portarti dietro le sbarre.
La yakuza quindi è sempre stata un’organizzazione che si è mossa nella semi-legalità. All’inizio degli anni Novanta, però, arrivano le prime leggi anti-yakuza. Perché e che cosa hanno rappresentato per il gruppo?
Si era appena chiusa una lotta sanguinosa all’interno della Yamaguchi-gumi, si sentiva quindi la necessità di intervenire in materia di ordine pubblico. C’erano, però, anche pressioni esterne.
Il Giappone è sempre stato aperto, per così dire, a seguire i consigli degli Stati Uniti: con il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica c’era meno bisogno che la yakuza operasse come una specie di braccio armato di una certa parte delle forze di governo. Non c’erano neanche più quei gruppi della sinistra insurrezionale che avevano caratterizzato la politica e i movimenti di protesta dei decenni precedenti. Diciamo che sia i fattori di politica interna che quelli di politica estera sono stati influenti in egual misura.
Ad ogni modo, con le leggi del ‘91-’92 la yakuza si riorganizza abbastanza in fretta. C’è stata una flessione degli affiliati all’inizio degli anni Novanta, ma poi è cresciuto il numero di quelli non completamente regolari. Qualche fastidio è stato indubbiamente creato, ma si trattava più di regolamentazioni – come spostare la sede in determinate zone – piuttosto che vere e proprie limitazioni.
Dal mio punto di vista, hanno inciso più la regolamentazione di certi mercati e la crisi economica che ha portato il Giappone in una lunga stagnazione che prosegue ancora oggi.

E attualmente la yakuza che tipo di presenza ha sul territorio?
Oggi è sicuramente più debole, mi verrebbe da definirla moribonda. Le ordinanze del 2010-2011 hanno fatto da grosso deterrente, perché vanno a limitare la vita privata degli yakuza. Un giovane che vuole entrare nella yakuza avrà una vita molto difficile: non può firmare contratti, affittare una casa e molto altro. O almeno: un modo magari lo trova pure, però poi se la polizia fa dei controlli e vede che la casa affittata è a nome di un amico ti chiude nella prigione di Fuchū per truffa.
Molti gruppi nel tempo, con l’invecchiare dei suoi membri e l’assenza di nuove reclute, si sono estinti. Poi dipende molto dalla zona. Nelle aree di campagna la yakuza è sempre più debole perché economicamente non è conveniente: i mercati sono sempre meno floridi e gli affari pochi. Non è come a Tōkyō dove qualcosa da fare lo trovi sempre.
A mio avviso, oggi, la chiave del successo dei gruppi è la leadership. Avere un boss che sa come muoversi nel mercato e che gode ancora del rispetto delle persone del proprio quartiere può portare qualche giovane recluta ad affiliarsi senza che la famiglia si opponga.
Attualmente i gruppi riconosciuti sono 25, ma alcuni di questi contano solo qualche decina di affiliati. Nel caso invece della Yamaguchi-gumi, contiene al suo interno varie decine se non centinaia di altri gruppi.
Verso la fine del libro, dedichi una parte alle difficoltà che devono affrontare gli yakuza che decidono di lasciare l’organizzazione per reinserirsi in società. Uno yakuza che vuole cambiare vita, secondo le ultime ordinanze, viene considerato comunque un affiliato all’organizzazione per ulteriori cinque anni dal ritiro.
Esatto, penso che la polizia sappia bene che non è una strategia vincente. Magari incoraggia il singolo membro a lasciare ufficialmente l’organizzazione - per cui le forze dell’ordine mostrano questi grafici con il numero di affiliati in costante calo - ma poi lo stesso prosegue come prima senza titolo.
Esistono dei centri anti-yakuza che tentano di agevolare il reinserimento di queste persone in società, ma parliamo di numeri bassissimi. Una volta mi trovai in questa tavola rotonda per parlare proprio del tema. Ero l’unica straniera. Feci un intervento in cui posi l’accento sulla responsabilità e sulla convenienza che ha lo Stato nell’aiutare queste persone per tenerle lontane dalla criminalità organizzata.
Fu un tipo di approccio alla questione osteggiato e criticato dai presenti, che non erano d’accordo con un tipo di intervento così importante da parte dello Stato.
In un passaggio scrivi: “alla yakuza servono giovani che abbiano sì un’inclinazione alla violenza, ma che la sappiano usare con parsimonia e solo quando strettamente necessario”. L’ultima domanda è estremamente delicata: il fatto che la criminalità organizzata giapponese ricorra meno alla violenza spietata è ancora una volta una loro forma di autonarrazione per cui si vedono forieri di un “codice etico”, oppure dalle tue ricerche hai potuto constatare che effettivamente il ricorso alla violenza è inferiore rispetto ad altri gruppi della criminalità organizzata?
È innegabile che quando ci si muove nei mercati illegali l’ideologia conti poco: la violenza c’è e viene esercitata. La differenza, però, secondo me sta nel fatto che rispetto ad altre mafie, la yakuza ha meno bisogno di usare la violenza. Mi spiego: essendo un’associazione regolamentata e “legale” (dei motivi per cui non esiste il reato a noi corrispettivo di “associazione a delinquere” ne avevamo parlato anche nella puntata su Aum Shinrikyō ndr), la yakuza ha avuto modo di svilupparsi burocraticamente. C’è un’organizzazione gerarchica fatta di capi, segretari, capi ufficio ecc… Questa varietà di ruoli abbinata a una liturgia molto precisa ha portato a una riduzione dei conflitti.
Faccio un esempio: se avviene uno scontro tra due gruppi che operano più o meno nella stessa zona, la mattina dopo i due capi si incontrano e trovano un accordo economico per risolvere la faccenda. Quindi sì, certamente l’ideologia è centrale ma anche organizzazione e burocrazia hanno la capacità di “razionalizzare” la risoluzione dei conflitti.
Inoltre, se pensiamo alle gang in Sud America o anche alle mafie in Italia, queste hanno un’agenda che è in contrapposizione con quella dello Stato. La yakuza, invece, non ne ha motivo e si posiziona per questo a suo favore.
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Intervista molto interessante. Complimenti!