L'attentato al sarin di Aum Shinrikyō, trent'anni dopo
L'evento che più ha rappresentato uno spartiacque per la società moderna giapponese nel racconto di Ilaria Maria Sala, giornalista che nel 1995 viveva a Tōkyō.
È il 20 marzo del 1995, un lunedì. Una bella mattina di sole primaverile. Ma il vento è freddo, e la gente che cammina per la strada indossa ancora il cappotto. Ieri era domenica, e domani – l’equinozio – sarà un giorno festivo. Magari potevate fare il ponte, forse avete anche pensato: “E se oggi non andassi al lavoro?” Purtroppo, però, per molte ragioni, non potete concedervi questa vacanza.
Per questo vi siete svegliati all’ora solita, vi siete lavati, vestiti, e siete andati alla stazione della metropolitana. Poi come sempre avete fatto la fila per salire su uno dei treni e andare in ufficio. Una mattina come tutte le altre, senza nulla di speciale. Un giorno come tanti della vostra vita.
Ma degli uomini dissimulati tra la folla, con la punta degli ombrelli appositamente affilata, perforano delle sacche di plastica piene di uno strano liquido…Underground, Haruki Murakami
Sono trascorsi trent’anni dall’evento che probabilmente più di tutti ha rappresentato uno spartiacque per la società moderna giapponese. Il 20 marzo 1995, viene rilasciato in alcuni vagoni della metropolitana di Tōkyō del gas sarin che provoca la morte di 14 persone e ne intossica più di seimila. Gli autori dell’attentato sono alcuni membri della setta Aum Shinrikyō, un culto millenarista guidato dal guru Shōkō Asahara1.
Nel corso della settimana, sui media giapponesi si sono susseguiti diversi speciali che ripercorrono quella mattina: qui, ad esempio, trovate una ricostruzione interattiva dello Yomiuri Shinbun con foto, audio e testimonianze raccolte in quei frangenti in cui la città è piombata nel caos. Qui, invece, le interviste dell’emittente NHK ai figli e le figlie degli adepti di Aum Shinrikyō che hanno passato molti anni della loro infanzia in isolamento rispetto al resto della società.
La produzione letteraria, giornalistica e documentaristica sul culto di Aum Shinrikyō e l’attentato del ’95 al gas sarin è estesa, per citare solo alcune delle opere più celebri ricordo il libro reportage Underground di Haruki Murakami (Einaudi Super ET); il documentario del 1998 “A” del regista Tatsuya Mori e il più recente Aum: the cult at the end of the world (2023) di Chiaki Yanahimoto e Ben Braun.
Sarebbe un atto di presunzione pretendere di raccontare tutto quello che è avvenuto in quei momenti di trent’anni fa, ma soprattutto cercare di spiegare cosa ha significato quel tragico evento per la società giapponese. Negli scorsi giorni, però, ho avuto la fortuna di raggiungere al telefono Ilaria Maria Sala.
Sala è una giornalista che vive da molti anni a Hong Kong. Collabora con testate internazionali prestigiose come The Guardian, mentre in Italia potete spesso leggerla su Internazionale. Il suo ultimo libro è “L’eclissi di Hong Kong” edito da Add Editore (2022), e presto sarà di nuovo in libreria con “Flower Power, storie politiche di fiori e giardini dall’Asia”, hopefulmonster editore.
Per me è una delle professioniste a cui guardo con più ammirazione, e quando ho scoperto che nel 1995 seguì, nel suo primo anno da giornalista a Tōkyō, l’attentato e gli eventi che ne conseguirono, non ho potuto fare altro che contattarla e farmi raccontare la sua esperienza diretta di quei tempi così convulsi.
Il racconto che segue è stato editato per adattarlo alla forma scritta e in alcuni punti abbreviato per questioni di spazio.

Benvenute e benvenuti alla puntata #41 di Japanica. Oggi la newsletter esce eccezionalmente di lunedì, dalla prossima settimana tornerò alla programmazione domenicale solita (almeno spero), seppur ai miei orari scombinati.
Tutti sapevano
Quando sono arrivata in Giappone nel 1995, i giornalisti di più lungo corso mi dicevano “in Giappone non ci sono grossi eventi o grandi casi di cronaca, bisogna piuttosto capire l’economia, il sistema gerarchico e la cultura”. Diciamo che io, invece, iniziai [il percorso professionale] in modo intenso. A gennaio c’era stato il terremoto di Kobe, a marzo poi l’attentato di Aum Shinrikyō.
Quello senza dubbio fu l’anno di Aum, ma fu una sorpresa solo per chi non era in Giappone o lo era da poco come me. Quando ci fu l’attentato, fui messa subito al corrente da alcuni amici che mi consigliarono di non uscire – all’epoca non c’erano gli smartphone, le notizie si venivano a sapere dalla televisione, dai giornali o dalla propria rete di contatti – sia il collega giornalista che l’amica che sentii quella mattina mi dissero che i responsabili erano sicuramente quelli di Aum.
Per me ancora oggi questo rimane uno dei grossi misteri del sistema giuridico giapponese, perché lo sapevano tutti. Eppure, i giornali per così dire ufficiali come l’Asahi, il Nikkei e lo Yomiuri non fecero il nome della setta per moltissimo tempo. A farlo per primi furono i giornali serali che nel ’95 erano ancora molto diffusi: erano i giornali venduti ai pendolari per quando uscivano dal lavoro – se ne vendevano a chili – e che avevano toni abbastanza scandalistici. Solitamente si preoccupavano di verificare le notizie solo dopo averle pubblicate, così riportarono quello che tutti sapevano senza avere la conferma dalla polizia.
Per cui c’erano queste due realtà che andavano avanti in parallelo. Per me, a quel tempo, appariva abbastanza incomprensibile il fatto che le testate aspettassero tanto tempo a riportare il nome [della setta]. Piano piano, iniziarono a comparire articoli su Aum anche sulla stampa più compassata, ma mai collegando direttamente il culto all’attentato della metro di Tōkyō. Piuttosto, facevano una pagina su quanto era avvenuto l’anno prima nella città di Matsumoto: sempre con modalità simili, Aum Shinrikyō aveva disperso gas sarin in una zona residenziale di questa cittadina nella prefettura di Nagano, uccidendo otto persone e intossicandone più di cinquecento. L’obiettivo da colpire erano i giudici del tribunale che si sarebbero pronunciati proprio in quei giorni contro la setta di Asahara.
Si andò avanti così per settimane, fino a quando la polizia non eseguì gli arresti in modo plateale, chiamando a raccolta tutti i giornalisti accreditati. Avevano organizzato persino gli autobus per la stampa. Il quartier generale di Aum, il satyam n.7, si trovava nel villaggio di Kamikuishiki, sul monte Fuji (qui si erano allenati Hayashi Ikuo, Niimi Tomomitsu e gli altri autori dell’attentato ndr). Il guru, Shōkō Asahara, si nascondeva tra le tubature di questo complesso di prefabbricati.
Per un osservatore esterno, come lo ero io, era un modo per vedere come funzionavano le relazioni tra la stampa e la polizia, i ministeri e più in generale le istituzioni: le informazioni venivano date come briciole ai giornalisti che passavano le giornate ai kōban (stazioni di polizia di quartiere, ndr) e che dimostravano lealtà e amicizia. Era un sistema di trovare informazioni per distribuirle che mi lasciava piuttosto perplessa – poi quando cominci a lavorare in Giappone per un tempo più prolungato sai che funziona così, però impararlo in un evento di quella portata fu di grande impatto.
In quei giorni mi chiedevo se fossi appena arrivata in un paese in cui il terrorismo sarebbe diventato qualcosa di comune. L’attentato poi era stato fatto con il sarin, che è un gas inodore e che ti lascia ancora più terrorizzata. Ogni volta che sentivi qualcosa, magari solo del prurito al naso, provavi paura. E poi faceva paura l’idea di avere a che fare non con un gruppo politico di cui conoscevi le richieste particolari, ma con una setta millenarista che diceva apertamente che doveva arrivare la fine del mondo. Una fine del mondo dove sarebbero sopravvissuti solo i membri di Aum. Insomma, una certa inquietudine te la dava.
Uno degli aspetti che vengono affrontati meglio nel documentario Aum, the cult at the end of the world (2023) e che mi ricordo bene anche io, era l’assurdità completa di quello che stava accadendo e che dovevi però in qualche modo accettare. Per cui bisognava essere sempre in allerta, controllare chiunque lasciasse un sacchetto dentro la metropolitana, e ancora: sapere se la polizia avesse chiuso delle zone o se avrebbe dato degli allarmi ecc… Dovevi fare in modo che tutto questo entrasse nella quotidianità, pur avendo difficoltà a credere che una setta millenarista avesse disperso un gas, utilizzato in passato dai nazisti, nella metropolitana di Tōkyō.
L’altra cosa impressionante non era solo il fatto che non si fosse fatto nulla nonostante il caso Matsumoto, ma che Aum Shinrikyō fosse stata capace di importare dalla Russia aerei e carri armati. A mano a mano che le notizie venivano fuori, era inevitabile chiedersi: come è possibile che nello stesso paese in cui vi è un controllo meticoloso di chiunque entri nel paese, una setta sia riuscita a importare carri armati e missili dalla Russia?
La polizia aveva costruito una rete estesa per cogliere in fallo i membri del culto, ma cosa si aspettava esattamente per procedere con le operazioni e arrestarli? Da un lato c’è il tema del sistema giudiziario giapponese: si procede con un arresto solo quando le prove sono inconfutabili e si è sicuri al 99% che le persone detenute siano responsabili del crimine commesso; dall’altro, quella lentezza fu anche il frutto dello strascico che il Giappone si portava dietro dalla Seconda guerra mondiale con lo shinto di Stato.
Ogni volta che un governo tentava di regolamentare o limitare la libertà di culto, immediatamente le opposizioni, soprattutto da sinistra, presentavano interrogazioni parlamentari e provvedimenti per ribadire che la religione non doveva tornare a essere ciò che era stata nel periodo imperiale.
Il fatto, quindi, che la polizia avesse a che fare non con un gruppo politico ma con un gruppo religioso ne aveva rallentato ulteriormente l’operato.
Nel frattempo - siamo negli anni Novanta – aveva iniziato a diffondersi la cultura del kawaii (carino, cute) che fece sì che persino il portavoce di Aum Shinrikyō, Fumihiro Jōyū, allora un trentenne di bella presenza, divenisse il soggetto di portachiavi e foto che le liceali attaccavano allo zaino e portavano con sé. Quando Jōyū teneva le conferenze con la stampa, le adolescenti si presentavano all’incontro per farsi le foto insieme a lui. In quel momento ti rendevi conto di come la cultura delle celebrities poteva essere applicata anche a un criminale, solo perché aveva un volto carino.
L’oggettificazione, la commercializzazione e la kawaizzazione avevano fatto parte anche del sistema di propaganda di Aum, con la diffusione di manga e anime dove persino Asahara, così pacioccone nella versione a fumetto, riusciva ad apparire carino.
Francamente per me era impressionante, qualcosa di destabilizzante. Perché da una parte era un’aberrazione, dall’altra era un tipo di comunicazione che faceva parte integrante della società giapponese.
Asahara aveva previsto in più occasioni che il mondo sarebbe finito, cosa che però poi non succedeva. Per questo il guru aveva deciso che bisognava dare una mano, velocizzare questo processo verso la fine del mondo affinché non si perdessero seguaci. L’attentato alla metro di Tōkyō era una prova dell’Armageddon, dove gli unici a sopravvivere in una sorta di “Arca di Asahara” sarebbero stati proprio i suoi fedeli.
Anche qui: se si va a vedere con attenzione quello che stava succedendo prima del 20 marzo 1995, emerge come alcune famiglie si fossero già organizzate con gli avvocati per portare in tribunale Aum Shinrikyō. Alcuni erano membri riusciti a fuggire, altri erano familiari di persone morte all’interno della setta. I fedeli, infatti, venivano sottoposti a punizioni corporali e pratiche fisiche che mettevano a dura prova l’organismo.
Aum Shinrikyō combinava diversi elementi religiosi presi dal buddhismo, dallo shintoismo e dall’induismo e che confluivano nella figura suprema di Shōkō Asahara, il quale vendeva bottiglie contenenti l’acqua in cui si era fatto il bagno, caschi in cui potevi “sentire” la voce di Asahara, registrazioni e molto altro. Più eri attaccato a Asahara e più eri vicino all’illuminazione. Gli adepti che vivevano con lui nel quartier generale erano quindi i fedeli più vicini alla vita eterna, e una volta che abitavi lì voleva dire che avevi lasciato a Asahara l’interezza dei tuoi averi.
L’accelerazione dell’attentato alla metropolitana era conseguenza proprio dell’aumentare di queste denunce (il successivo piano in vista dell’Armageddon prevedeva la “guerra del novembre 1995”, ovvero lo spargimento di gas sarin su tutta la città di Tōkyō dagli elicotteri ndr).
Ripeto: mettendo in fila i fatti, rimane ancora meno chiaro perché Asahara fosse ancora a piede libero.
La polizia stava facendo indagini su indagini, aveva già raccolto moltissimo materiale, il modo in cui procedeva però era lentissimo. Questo voler accumulare le prove più schiaccianti prima di muoversi per prevenire ogni tipo di opposizione a un’operazione contro un’organizzazione religiosa, per di più economicamente potente, li faceva procedere lentamente a cui poi si è aggiunto un errore di valutazione o di intelligence.
L’attacco alla metro di Tokyo è stata conseguenza, quindi, dell’aumentare dei casi giudiziari – è stata una decisione presa in fretta anche all’interno della stessa Aum – ma la polizia è stata presa in contropiede.
Questo, fra l’altro, ebbe un effetto negativo sulla percezione che aveva la società giapponese verso le forze dell’ordine: ci fu la sensazione di non essere protetti all’interno di una società così ordinata e con un tasso di criminalità molto basso. Ancora una volta si torna al nodo delle responsabilità nelle istituzioni giapponesi: di fronte ai grandi avvenimenti le autorità si chiudono a riccio, evitano di prendere decisioni grosse perché non si sa come affrontare le responsabilità.
E rispetto alla questione sette e culti religiosi – per quello che secondo me è anche un senso di colpa irrisolto della Seconda guerra mondiale che ha portato il governo a una permissività e a una volontà di non immischiarsi in certe faccende perché l’ultima volta che è stato fatto a livello governativo ha portato a degli orrori – il Giappone tende a guardare da un’altra parte finché il problema non gli scoppia in faccia.
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Shōkō Asahara, pseudonimo di Chizuo Matsumoto, è stato condannato a morte per impiccagione. L’esecuzione ha avuto luogo nel 2018.
Sono tutti interessanti e ben scritti i suoi articoli. Mi sono innamorato del Giappone guardando i film di Ozu e non ho più smesso. Recentemente ho guardato Asura, una serie bellissima. Il suo sito una piacevolissima scoperta. Grazie.
Tra l'altro cercavo il documentario "A" da anni e finalmente, grazie a questo bell' articolo, dopo una breve ricerca su YouTube, l'ho trovato! Grazie